Così, a spanne, da Torino a Gressoney Saint Jean saranno un centinaio di chilometri. Google Maps, l’amico pistino sempre pronto a correggerti, dice 92,7. Praticamente dietro casa: un’oretta e ci siamo. Eppure, a guardare dal finestrino il mar di mais, l’obelisco smisurato di Settimo e la Valle del Po esausta di capannoni e raccordi, la Valle del Lys pare lontanissima. Attorno a Pont Saint Martin le balze terrazzate fanno da sbarramento alla boscaglia, tetti e campanili son del colore delle cime. Ad arrampicare i tornanti presso Fontainemore non sembra tanto di salire, quanto di affondare in un’idea della montagna. Gressoney, poi, è una cartolina della civiltà Walser: architettura in legno e pietra, gerani alle finestre, laghetti e prati immacolati. Tanta affettazione è scrigno di un turismo efficientissimo: puoi scarpinare sui ghiaioni o startene in panciolle a guardare una serie su Netflix, sbirciando il Rosa. Il wi-fi è gratuito, ma gli alimentari chiudono per pranzo, come una volta. Vien da chiedersi, tra tutto questo comfort che trascende la tradizione, se non valga anche quassù la parola disembedding che descrive così puntualmente i rapporti sociali di pianura, fabbrica di veri e propri mondi “disancorati”, scollati dai contesti locali.
Nella cornice ludica, un invito ad andare più a fondo era stato, lo scorso anno, la Summer Camp Academy del Gambero Rosso, che proponeva una rivisitazione della tradizione gastronomica in chiave alta ristorazione. Lanciammo un contest sulle ricette ritrovate, ammiccando ai temi della località. In parallelo, nei locali di Gressoney si svolgevano showcooking e degustazioni di vini e birre all’insegna del “Km 0”. Quest'anno, lo chef Antonio Labriola è tornato tra il 10 e il 15 luglio su iniziativa del Comune di Gressoney Saint Jean e di Città del Gusto Torino per replicare gli “Incontri di gusto”. Tra una mousse di Sairass alle erbette, una polenta croccante in insalata e un piatto di gnocchi viola al burro e salvia, a porre il sigillo sull’incontro tra buona cucina e agricoltura di alta quota sono stati i prodotti dell’azienda agricola Paysage à Manger, modello di land stewardship che sposa alla produzione di alimenti sani e sicuri la tutela della biodiversità e del paesaggio. Il lavoro di Federico Chierico e Federico Rial è la prova del nove che le buone pratiche di campo si riverberano sul territorio, con buona pace del disembedding.
Per il consumatore, la parola biodiversità si declina nell’arcobaleno sul banchetto, tra varietà antiche e rare di patate che crescono dagli 800 ai 1800 metri e ben si prestano ai virtuosismi degli chef (come gli gnocchi viola figli della varietà “Bergerac”). Con un ettaro e mezzo di patate, ortaggi antichi e piccoli frutti distribuito tra le terrazze della bassa valle e la piana di Gressoney ai piedi del Rosa, un mosaico a cui gradualmente si sono aggiunti terreni bonificati, i due ragazzi hanno avviato una ricerca orientata alla produzione congiunta ai valori ancestrali della custodia e della cura, che è colere nel senso di coltivare cose e luoghi. Consapevoli del legame tra agricoltura e ambiente e delle connessioni tra cibi e luoghi, parlano della fatica e della soddisfazione con gli occhi lampeggianti, tradendo un’intimità con la terra che offre la schiena solo a chi dona le mani e il cuore con l’intento di “mangiare il paesaggio”, anziché consumarlo, come avviene in basso. Per chi non è di casa a Gressoney, il testone fulvo alla Reinhold Messner di Federico Chierico è un po’ l’icona di Paysage, e Federico Rial ne è la voce. Addomesticare uno spazio significa creare dei legami, aprirsi agli incontri e agli scambi: l’essenza è tutta qui. Nelle valli alpine avviene da sempre, ed è sempre possibile.
a cura di Luca Bugnone