Di viti e di vino tanto si è scritto e tanti hanno scritto, da Omero in avanti: lo ricordava qualche tempo fa Giuseppe Brandone proprio sulle pagine del Gambero Rosso. D’altronde si sa, col gusto di bere bene il gusto per la letteratura va a braccetto. Non a caso la parola “vino” vanta nella Bibbia 278 menzioni, e 141 la parola “vite”. C’è da scommettere, però, che ricorrano qualche volta di più nello snello ed eccellente L’arte di bere il vino e vivere felici di Gigi Padovani, edito da Centauria. Venerdì 3 febbraio, al Circolo dei lettori di Torino, viziati da un calice offerto dalle Cantine Damilano e con l’atmosfera infusa dalle voci e dalla musica degli attori Alice Bertocchi e Francesco Mei, abbiamo ripercorso la carriera squisitamente eno-letteraria dell’autore, accompagnato per l’occasione dalla giornalista e sommelier Alessandra Comazzi.
Food writer e critico gastronomico, dopo un primo incarico per Barolo&Co Padovani ha curato la terza pagina de La Stampa, è stato inviato e poi redattore. Nei ventisei anni trascorsi al quotidiano subalpino la passione per l’enogastronomia ha finito per incastonarsi con la professione giornalistica: il “bicchiere che illumina la mensa” è diventato la bussola per nuove narrazioni, mentre il degustare è rimasto un gesto “sereno” estraneo a certe dimensioni iperboliche oggi tanto di moda. Ironizza infatti Padovani sugli eno-snob, i quali, nel tratteggiare le sensazioni suggerite al palato, citano “selle bagnate in corsa nella steppa” e altre amenità. Riconosce al vino, piuttosto, la facoltà preziosissima descritta da Mario Soldati di dissetare l’anima, e alla degustazione la virtù di comunicare la felicità che dal bere deriva. Il vino “parla di vita, di territorio, di storia, di letteratura”; il vino è “l’ambasciatore del vigneto Italia nel mondo, un modo per capire cosa si vive in questa terra”. Il vino è protagonista dei nostri momenti di mindfulness, ossia di consapevolezza. Una consapevolezza che, citando Gino Veronelli, Padovani afferma esser maturata in lui “calpestando le vigne”.
L’arte di bere il vino e vivere felici è a tutti gli effetti una cassetta degli attrezzi per gli amanti del convivio attenti al particolare–colore, etichetta, ossigenazione, tappo–e indifferenti alla vuota ritualità. Prendiamo la temperatura: “6-7 gradi per un bianco, 16-18 gradi per un rosso”. L’ortodossia del bianco conduce sovente ad anestetizzarsi la lingua; il fondamentalismo della temperatura ambiente porta in tavola “marmellate a 23 gradi”. Padovani offre spunti e consigli pratici in linea con un approccio che definisce laico, antidogmatico, e tuttavia rigoroso nei confronti di certe introduzioni recenti come il vino in plastica, al cui pensiero l’uditorio produce smorfie di raccapriccio. Il piglio giornalistico lascia spazio a considerazioni di carattere antropologico che vedono nel vino la cartina di tornasole della felicità tirata in ballo dal titolo, dove per felicità s’intende “vivere bene”, la salute della popolazione. Sarà un caso che in luoghi dove “d’almo lieo” si fa poco uso, come negli Stati Uniti dove il consumo pro capite è di 6-7 litri l’anno, obesità e malattie cardiovascolari hanno maggior diffusione?
Mancando il vino, manca il ricordo “di un pezzo di terra, di una veduta” scoperta gironzolando per le vigne. È il ricordo di questo legame con la terra custodito nel vino a fare del bere il rito gioviale che amiamo e bissiamo in compagnia, e sono letture come il manuale di Gigi Padovani a venirci in aiuto nel vivificare quel ricordo, nel renderlo cristallino, nell’interpretare con un’altra consapevolezza i versi dedicati da Pablo Neruda alla “luce di una bottiglia d’intelligente vino”.
a cura di Luca Bugnone