Il noto ristorante romano, premiato con Due Forchette del Gambero Rosso e una stella Michelin, è il teatro dove Roy Salomon Caceres, colombiano di nascita e italiano di adozione, manda in scena la sua cucina, semplice ma al tempo stesso innovativa, capace di stimolare i sensi ed evocare emozioni a chi degusta i suoi piatti. Anche se il primo ad emozionarsi è proprio lui, come ci ha spiegato in occasione dell'intervista che ci ha rilasciato.
Cos'è la cucina per Roy Caceres?
La cucina significa molto per me. È la mia passione, il mio stile di vita e rappresenta tutto quello che ho dentro e che voglio trasmettere.
Secondo lei la cucina di oggi in che direzione sta andando?
In questo momento la cucina è arrivata ad un livello tecnico molto elevato. Quindi secondo me è necessario fermarsi un attimo e voltarsi indietro, verso le proprie radici, per capire cosa siamo e soprattutto per proiettarci nel futuro con la consapevolezza di che cosa vogliamo diventare. Le radici sono fondamentali, sono quelle che reggono l'albero, ma a volte tendiamo a metterle da parte e a dimenticarci di loro. Io questa cosa l'ho vissuta in prima persona. Sono arrivato in Italia tanto tempo fa e per un lungo periodo mi sono concentrato più sulla vostra cultura a discapito della mia. Ad un certo punto però mi sono accorto che mancava qualcosa nella mia cucina, ed erano proprio le mie origini sudamericane.
Qual è il piatto che riesce a fondere queste sue radici?
In questo momento penso che un piatto che può dire molto di me è l'Anti-pasta che abbiamo presentato a Culinaria 2016. Al ristorante già stavamo sperimentando alcune tecniche su come concentrare il gusto della pasta, per farle acquisire un'identità ancora più forte. Con l'Anti-pasta crediamo di aver raggiunto questo scopo.
Il tema del viaggio lo si ritrova spesso in cucina. Per lei cosa rappresenta?
Per uno chef ogni viaggio è una scoperta di prodotti, di tecniche e di persone. È una fucina da cui pescare per creare cose nuove. Penso che sia una delle strade più facili da percorrere per avere nuovi spunti. L'emozione che provi durante il viaggio la porti con te, la metti in un piatto e la trasferisci al cliente attraverso il cibo. È fantastico!.
Ha mai pensato di esportare Metamorfosi all'estero?
In questo momento mi piacerebbe molto aprire in Colombia. Ho avuto il piacere di tornarci lo scorso anno dopo venti anni. Sono davvero entusiasta di come è diventata adesso, di quanto sia cresciuta dal punto di vista economico e gastronomico. Se dovessi avviare un progetto del genere in futuro sicuramente lo farei lì, nel mio Paese.
Cosa pensa dell'uso delle nuove tecnologie in cucina?
Ritengo che siano utili ma non sempre necessarie. Vanno utilizzate con criterio, con etica e con la giusta misura. Sta allo chef capire se e come utilizzarle per esaltare la materia prima che ha a disposizione.
E del binomio cinema-tv?
Credo che l'exploit che c'è stato con i vari show televisivi abbia aiutato il nostro settore, perché ha portato molta più attenzione e consapevolezza su quello che accade dietro il ristorante. Ora la gente sa che dietro ad ogni singolo piatto c'è un pensiero, uno studio delle materie prime e delle tecniche di preparazione. Ciò ha permesso di alzare il livello qualitativo del nostro lavoro ed è sicuramente un aspetto molto positivo, anche se qualche volta si tende a pensare che sia tutto molto facile. Non basta andare in tv per diventare un vero chef: puoi essere creativo e geniale quanto vuoi, ma quelle sono doti che valgono solo il 10%. La genialità deve essere accompagnata dal duro lavoro, solo in questo modo si può creare qualcosa di speciale.
Si ritiene uno chef "social"?
Prima lo ero molto meno, poi ho capito le potenzialità dei social. La condivisione delle nostre creazioni arricchisce il valore del piatto e del duro lavoro che svolgiamo in cucina. Altrimenti rimarrebbe a conoscenza dei soli clienti che vengono a trovarci.
Chi sarebbe oggi Roy Caceres se non fosse diventato uno chef?
Da bambino ero in fissa con il basket. Mi studiavo intere partite di NBA, guardandole anche a rallenty per capire le mosse dei giocatori. Poi andavo in campo e provavo a ripeterle. Mi allenavo tantissimo, sono arrivato anche legarmi la mano destra per sopperire le mancanze che avevo con la sinistra. Mi sarebbe piaciuto diventare un giocatore professionista, ma i casi della vita hanno voluto che facessi altro. E ad oggi sono felice che sia andata così: io amo il mio lavoro.
a cura di Gianluca Ciotti
allievo del Master in Comunicazione e Giornalismo Enogastronomico del Gambero Rosso