Il ristorante di pesce che sta rivoluzionando la cucina di mare. La terza via di Jacopo Ticchi

23 Mar 2025, 18:10 | a cura di
Recensione senza filtri (e senza chef) al ristorante di pesce del momento. Da Lucio: né fine dining, né trattoria, ecco la terza via

Sul mare anche un grissino ha più sapore. Da Lucio è una nave in mezzo all’Adriatico, una propaggine di scogli nella nuova darsena di Rimini. La giornata è lenta e uggiosa, fredda e umida come poche: l’ideale per regalarsi un pranzo in solitaria nel ristorante di cui tutti parlano. “Quel locale è maledetto, hanno fallito tutti quelli ci hanno provato”; “Lo chef si è montato la testa, 130 euro per un menu degustazione per uno che aveva una trattoria?”; “Il ristorante del momento, sta ridisegnando i confini dell’alta ristorazione”; “Pretenzioso. E non ancora a fuoco”. I commenti che raccogliamo il giorno prima della visita non sono esattamente lineari, la nostra curiosità è alle stelle. Guadagniamo un tavolo con vista sulla cucina, caschiamo dentro i ritmi di una banda di 30enni: barbe lunghe, cappellini, aria scanzonata e molto divertita. Jacopo Ticchi, il padrone di casa, non c’è, è impegnato in una fiera in città. Menu degustazione? No, abbiamo le idee chiare, siamo venuti per due piatti studiati nei minimi dettagli, uno è il brodo di pesce. Atto primo. Il cameriere ci sventola sotto gli occhi un grazioso vassoio di legno contenente 7-8 tagli di pesci, con relativo cartellino e prezzo. Il carrello del mare prevede gole di spigola, una ventresca di tonno scolpita dal Bernini, un fagottello di dentice che fa salivare e altre leccornie. “Ok, fate voi”. Con grande coerenza optiamo per il lungo menu degustazione!

Da trattoria a laboratorio di frollatura del pesce

Scaldiamo i motori con un cocktail di benvenuto con tanto di alga marina al posto dell’oliva sul fondo del bicchiere e si parte. Non ci sono tovaglie, ormai più rare di un buon Nebbiolo in California, tavoli di legno eleganti e ampie vetrate. L’attacco ci riporta indietro nel tempo, quando Da Lucio aveva la trattoria nel nome: nel 2019 si trovava in un piccolo buchetto nel quartiere etnico della città, non lontano dalla stazione dei treni. La crescia bollente si porta dietro una pancetta stagionata 2 anni, uno spiedino di morone o ricciola di fondale con bottarga a coprire, e cipolla in agrodolce a pulire: boccone delizioso che apre lo stomaco. Il pesce, appeso in bella vista all’ingresso, è quello dell’Adriatico, frollato mediamente per una settimana. Sui crudi non sempre funziona: ottimo il branzino con l’amaro del levistico; sul filo del metallico il dentice con agrumi e giglio. La qualità media è alta, ma dove non c’è un ingrediente (come le uova) che spinge, il sapore rimane un po’ piatto: ci sarà un motivo se da questa parte la tradizione delle zuppe di pesce è più viva che mai. Con la stagionatura il pesce acquisisce in matericità: un boccone consistente, ma non altrettanto sapido. Ci divertiamo con una terrina di scarti del pesce: spiazza e convince. Atto due. Arriva una montagna di pepe in crosta, dentro sono state cucinate delle ali di razza: condite con salsa di pesci azzurri e pinoli. Saltiamo dalla sedia. Grandissima tecnica, punto di cottura chirurgico, carne soda e succosa, il pepe è penetrato nel pesce in maniera sinfonica ed elegantissima. Travolgente.

Jacopo Ticchi chef e patron di Da Lucio a Rimini

Servizio informale e ritorno alla brace

Tra un sorriso e una battuta, il servizio rende tutto informale e leggero. Il terzo atto è quello della brace. Il filetto di rombo per cottura ci riporta al mitico Elkano nei Paesi Baschi, a rinforzo arrivano le trippe di misti da mangiare con le mani e un collare di ombrina laccato nel forno a legna e perfettamente speziato. A rinforzare, la cipolla sotto la cenere: il sapore del fuoco qui ha una marcia in più. Siamo in estasi, fantastichiamo su storie di marinai portoghesi, salpiamo per porti e ristoranti di tutto il mondo. E chiediamo un bis: arriva prima una ventresca (Spagna) che sembra kobe, con il grasso incredibilmente intessuto nella carne e cotto a puntino. Puntiamo sulle gole di ombrina che arrivano come fosse un saltimbocca del mare, con burro e salvia in salsa pil pil. Puntualmente, dalla cucina presenta il piatto chi l’ha cucinato, con il sorriso e tanto fuoco negli occhi: due-tre parole e rientrano in cucina. La nave ha uno spartito non scritto che tutti seguono alla lettera. Dalla cucina ci omaggiano con delle capesante che sguazzano in un mare di burro con bottarga, decisamente meno riuscite. Atto quarto: in scena arriva un enorme coccio di terraccotta che ci viene aperto davanti: eccolo il brodetto di pesce tradizionale. Due mestolate e una fetta di buon pane con l’aglio che grida.

Ventresca di tonno. In apertura il collare di ombrina laccato alla brace

Oltre la freddezza di un fine dining

Due-tre assaggi e ci fermiamo: la cottura nel forno a legna e il pomodoro sono incredibilmente concentrate, il brodetto quasi viscoso e manca un elemento di vuoto a dare ritmo. Barocco, ridondante. Insomma, il piatto per cui eravamo venuti è il meno interessante di tutti. Come abbiamo raccontato anche sull’ultimo numero del mensile, la pasta e il carboidrato, come in Asia, chiude il percorso: cappelletti vuoti alla panna e fegato di pesce, farcia e ripieno si scambiano ruoli per finire di nuovo sul mare. L’equipaggio, intanto, rimette a lucido la cucina; la sala a osservarla bene ha proprio la forma di una nave. Anche senza il comandante Ticchi, la nave pirata è in piena forma. Abbiamo trovato una socialità e un calore inusuale in un ristorante del genere, una complicità tra cuochi e camerieri perfetta. Non siamo in una trattoria, ma non c’è quel distacco di tanti fine dining.

Anche la carta dei vini è un po' ribelle

Troviamo empatia, servizio sorridente e ironico. La scelta di mettere tutti i piatti al centro della tavola crea un clima di vera condivisione tra i commensali molto bello. Come il tavolone nella sala adiacente o l’angolo per gli alcoli e il bancone del pane (da febbraio è attiva anche la colazione d’asporto da assaporare direttamente in mezzo al mare). Abbiamo toccato con mano l’energia di un progetto nuovo, forte, non ancora perfetto, che cerca rotte meno battute. Anche la carta dei vini è ribelle, ¾ potremmo prenderla alla cieca vedendo il luogo e le persone: indole naturale, un po’ talebana, ma anche etichette meno note. A fine serata Giacomo, il sommelier che ci ha coccolato dall’inizio alla fine, ci racconta che sogna di aprire un wine bar sul lago di Como dove i genitori hanno un locale: «Un giorno c’è il prodotto dell’orto, il giorno dopo quello del supermercato. C’è da mettere un po’ di ordine», ridacchia. Usciamo dal ristorante e puntiamo la torretta gialla del faro alla fine degli scogli. La sensazione è da fine del mondo, ci sono solo due ragazze che parlano con i loro cellulari. E una nebbia fine e impalpabile tipica dell’Adriatico in inverno. Tutto è fermo. Tutto è in movimento.

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