È in corso il Sei Nazioni, la più importante competizione di rugby. Fra le poche manifestazioni sportive in grado di catalizzare lo stesso interesse di un big match di calcio. E pensando proprio alla palla ovale è stato facile ricordarsi di una vecchia promessa, rimasta tale per qualche infortunio di troppo. Stiamo parlando di un professionista affermato della cucina, lo chef stellato Marco Martini, che da nove anni gestisce l'omonimo ristorante all’interno del The Corner Roma, un hotel dai tratti liberty che dà su viale Aventino. Sebbene risulti ancora giovane, il cuoco di Colleferro può considerarsi un veterano del mestiere. Adesso, anche un abile imprenditore, capace di resistere all’ondata di chiusure e aprire un altro locale. Negli anni è certamente maturato. Eppure, a sentirlo non sembra cambiato di una virgola. Continua a mostrare la spavalderia degli anni migliori, quando veniva considerato dalla critica uno dei più talentuosi.
Dai campi fino agli esordi in cucina
A guardarsi indietro, potrebbe compiacersi di essere uno di quelli che ce l’ha fatta. In effetti, Marco è partito da lontano. Anzi, lontanissimo. Ne ha fatta di strada contando solo sulle proprie forze e oggi è ancora saldo al timone, lì tra i protagonisti della ristorazione capitolina. Ma non tutti conoscono la storia, il percorso che lo ha portato al successo o ciò che lo ha fortificato permettendogli di tenere botta alle delusioni e alle poche ore di sonno. In tutto questo, lo sport è stato fondamentale.
Senza il rugby, che gli ha trasmesso tanta grinta e un incredibile spirito agonistico, forse non saremmo qui a scriverne. Da placcaggi e mischie in mezzo al fango impara a non darsi mai per vinto, a non cadere nello sconforto. Neanche quando all’età di 18 anni, dopo varie presenze in serie A, due gravi infortuni — menisco e cuffia della spalla — lo costringono a lasciare il professionismo. Partito dall’Under 12, nel ruolo di terza linea, aveva fatto tutta la trafila delle giovanili fino ad arrivare in prima squadra. Un impegno anche per chi stava a casa: «A Colleferro giocavo su un terreno bruttissimo. Molto fango. Dicevo sempre che era un campo di patate (impraticabile). Per questo mamma aveva due lavatrici, una per i vestiti da rugby, l’altra per i panni normali». Per fortuna, il sogno nel cassetto era un altro: «Sognavo di abbandonare la periferia e sentivo il bisogno di esplorare il mondo. Volevo rendermi autonomo». La cucina diventa la strada per darsi una prospettiva: «Mi ero diplomato. Avevo bisogno di mantenermi. Era una necessità, più che una preferenza. Non sapevo cosa mi avrebbe riservato. E così sono andato a fare uno stage da Antonello Colonna a Labico». Da qui parte la carriera di Martini. Sotto la guida del famoso ristoratore, brucia le tappe arrivando in poco tempo a capo delle brigate dell’Open Colonna, un ristorante prestigioso all’interno del Palazzo delle Esposizioni, palcoscenico che gli offre grande visibilità.
Il terzo tempo al Marco Martini Restaurant
Ormai è già al suo secondo fine dining, che lo impegna pure sul lato management di cui si occupa insieme all’inseparabile Andrea Farletti, compagno di viaggio sin dai tempi di Stazione di Posta, ristorante all’ex Mattatoio di Testaccio con il quale riceve la prima stella Michelin nel 2014. Negli anni ai fornelli ne ha viste di cotte e di crude. Si mostra confident, ma non si sente arrivato. Anche perché, come ripete spesso, ha la responsabilità di un locale — in realtà due (c’è anche l'enoteca con cucina Mantis)— e di 23 dipendenti, e quindi deve stare sempre sul pezzo. Non ha tempo di crogiolarsi sugli allori, né di rimuginare sul passato da rugbista. Con la palla ovale poi ha perso dimestichezza. Fa notare che il rugby, a differenza del calcetto, non è uno sport che si può praticare in modo blando. Niente partitella con gli amici. Ci si infortuna gravemente. Lui sì che ne sa qualcosa. Con fermezza sottolinea che «è una cosa seria. O si fa seriamente, oppure non si fa proprio». Parole che acquistano subito credibilità; quando gli domandiamo che “sapore” abbia il campo di gioco, il ricordo è nitido, impresso indelebilmente: «una foglia di bietola, di soffice bietola». Sì, ha appeso gli scarpini al chiodo da un po’, ma il rugby continua a essere presente, seppur in modo latente. Lo avvertiamo. E non solo perché uno dei più grandi amici è Martin Castrogiovanni (qui la nostra intervista), giocatore che ha fatto la storia della nazionale italiana risultando fra i pochi piloni a segnare una tripletta. Continua a fare tesoro dei valori che gli ha insegnato da piccolo lo sport. Sacrificio, spirito di squadra e rispetto per il prossimo sono «alla base di tutto» e al ristorante possono convivere tranquillamente con gerarchie e catena di comando, ritenute cruciali nella gestione della brigata: «Il vero rispetto è pagare tutte e 14 le mensilità. C’è un’organizzazione sana proprio per il fatto che le gerarchie sono reali (effettive). Sono "leggi" imposte da chef più bravi di me, con cui mi confronto regolarmente. Le regole della cucina, come quelle del rugby, non cambieranno mai. Per questo le nuove leve devono rispettarle se vogliono diventare in futuro grandi cuochi o giocatori. Ma sono sempre meno disposte a sacrificarsi. Perciò sono attività che non fanno per tutti».
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Barbecue con un vecchio amico, Martin Castrogiovanni @MarcoMartini
A proposito di analogie, sostiene che un ristorante faccia meta quando è pieno e rende i propri collaboratori e fornitori felici pagandoli in tempo. Appena accenniamo invece alla possibilità del terzo tempo, ci interrompe: «In cucina non esiste. Il ristorante è un posto di lavoro, non ricreativo. Finito il turno, si deve andare a casa a riposare. Poi, al di fuori, nei giorni in cui non c’è servizio, magari sì, visto che alcuni collaboratori stanno con me da 12-13 anni (cioè prima che iniziasse l’avventura al The Corner)».
Non lo dice più come faceva un tempo, tuttavia dal mondo legato al rettangolo verde ha tratto non solo dei preziosi insegnamenti, ma anche autentica ispirazione per la proposta enogastronomica. La cultura che si è fatto sulla birra Marco Martini la deve almeno in piccola misura al vecchio post partita — terzo tempo incluso — in cui ci si rifocilla tutti insieme, spesso tra una pinta di birra e l’altra. A Roma lui e il sommelier Farletti sono stati fra i primi ad abbinare alle portate da stella Michelin un percorso alcolico alternativo al vino: una lista di cocktail originali, tra i quali uno preparato con la spuma di birra, la loro interpretazione del Negroni. Senza dimenticare che dalla rievocazione della merenda romana «pizza e mortazza», che amava accompagnare con una Blanche, nasce uno dei suoi cavalli di battaglia, il piatto Tortello di mortadella, pizza bianca e pistacchi, ancora presente in carta.
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@MarcoMartini
Lo chef indica la retta via
Con botta e risposta continui, non ci si annoia di certo a parlare con Martini. È assertivo, ma allo stesso tempo schietto e diretto. Dai trascorsi da giovane rugbista al presente, si concede senza farci fare salti mortali per cavarli le parole di bocca. Tutt’altro, è un fiume in piena appena lo stuzzichiamo tirando in ballo il dibattito infinito sullo stato di salute dell’alta cucina. Senza troppi giri di parole respinge le tesi secondo cui sarebbe ai titoli di coda: il fine dining non è in crisi e non sta affatto morendo. Sul punto il cuocor di Colleferro ha le idee chiare: «È in crisi per chi non cambia il menu da anni. Muore se non si studia, non si sanno fare i piatti. Per cattiva gestione. Prima ancora della cucina, bisogna saper fare la spesa, tenere in regola i conti. Pensi alle famiglie di prima, donne con 10 figli che dovevano fare la spesa facendosi bastare i soldi. Erano loro a gestire l’economia della famiglia. La stessa cosa vale per il ristorante. A me stanno arrivando prenotazioni per giugno. La mia azienda è sana e non ho mutui. L’aumento dei prezzi è una scusa. I costi sono aumentati per tutti. Per me, il fine dining non è finito. C’è ancora tanto da fare. Ci sono chef bravissimi, alcuni emergenti». Piuttosto, contesta al settore di aver reso il mondo della gastronomia più complicato di quanto in realtà sia: «è stata gonfiata la cucina, che è molto più semplice di così. Noi facciamo solo da mangiare. Non operiamo a cuore aperto. Siamo artigiani. Se diciamo ai ragazzi che siamo artisti, ci credono pure. Diamo loro un cattivo esempio. Mi piacerebbe aver fatto la fontana di Trevi e non un raviolo, essere Raffaello Sanzio anziché Marco Martini. Ai giovani serve disciplina. Devono andare dove si respira cultura gastronomica, non per forza dagli stellati. Una grande trattoria o una signora che fa bene la pasta possono insegnare molto, proprio come uno chef. Invece collezionano esperienze professionali di pochi mesi soltanto per il curriculum. Eppure, Carlo Cracco dice che non contano tanto le esperienze, ma come si fanno».
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Cucinare per un ospite speciale
Il pane preparato dal cuoco è pronto, una sperimentazione sul Bazlama turco, che vorrebbe proporre quale benvenuto da Mantis. Prima di salutarlo però ci teniamo a sapere se alla fine abbia fatto tesoro delle parole di Stefano Bonilli che, dopo una delle varie visite all’Open Colonna, scrisse di lui: «In cucina c’è un ragazzo di 24 anni che dovrà girare il mondo, non per copiare ma per capire». Alla sola menzione del nostro fondatore, Marco Martini cambia tono di voce, quasi si ammorbidisce tanto è il rispetto verso Bonilli: «Me la vorrei tatuare questa frase. Me lo ha detto in un momento in cui stavo andando forte. Era sempre presente all’Open e ordinava spesso il Negativo di carbonara (altro piatto storico). Ho imparato a gestire le critiche di un cliente e ad accettare i consigli, ma a vent’anni mi sentivo il più forte di tutti. Da quel momento mi sono chiesto se fossi in grado di reggere nelle più grandi cucine internazionali. Per capirlo sono andato a Londra, prima da Heinz Beck e poi da Tom Aikens. Alla fine le conferme me le sono date da solo, al di là della critica e dei premi. Dopo ho aperto Stazione di Posta con l’idea di rendere la Michelin accessibile a tutti (lo stile culinario che parte dalla memoria romanesca ne è una prova). Ho avvicinato i romani alla cucina stellata. Adesso dicono tutti che il fine dining sta morendo, ma nessuno si ricorda com’era prima, quando regnava la serietà più assoluta, anche tra i clienti».