Per molto tempo la Vigilia di Natale è stata sinonimo di fritto misto: carciofi, broccoli e patate ricoperte da quella pastella che nonna e zia gettavano nell’olio bollente anche vuota, a mo’ di frittella. Era il profumo di festa, con la più romana delle specialità: la ricotta fritta. Da anni non le mangio più, ma in compenso ho guadagnato il «pezzullo» di baccalà, l’insalata di rinforzo e soprattutto una marea di dolci, grazie alla famiglia di mio marito di origine campana.
Due napoletani a Roma
Vigilia da lui, Natale da me. È così che abbiamo diviso abitudini e sapori. La nostra è una famiglia in crescita fatta di gesti appresi negli anni e altre tradizioni solo nostre: nella distribuzione delle faccende domestiche, la cucina spetta a me e sulla tavola finisce po' di tutto. C'è qualcosa di mia mamma, tanto della mia esperienza ma ormai anche un po’ dei miei suoceri, Amelia e Gaetano, la mia seconda famiglia. Un pizzico di nonna Adriana e una spolverata di nonna Maria, la nonna materna di mio marito, ed ecco la ricetta che muove la nostra cucina.
Anche il Natale, da tempo, ha più sapori. Che partono con una sfilata di specialità campane: cresciuti a Torre Annunziata (Napoli), i miei suoceri sono arrivati nella provincia romana a fine anni ’80. Pomezia, il posto a sud di Roma dove io e mio marito siamo cresciuti, oggi è un comune pieno di supermercati, industrie, scuole, ma al tempo, come ripete sempre Gaetano, «era tutta campagna e sotto casa veniva il pastore a vendere il latte». La loro vita l’hanno creata da soli, da zero, aggrappandosi ai ricordi di famiglia anche attraverso il cibo: la Vigilia se la sono dovuti inventare insieme ai figli, senza contare su grandi tavolate ma rendendo speciale ogni momento, scandendo le ore che separano alla Mezzanotte con rituali e pietanze.
La Vigilia di Natale napoletana (a sud di Roma)
Momento sacro è quello della frittura di pesce, il pezzo di forte di Gaetano. Al contrario della mia prima famiglia, in questa cucinano tutti, e gli anelli di calamaro di mio suocero sono imbattibili. Anche il primo piatto è opera sua, uno spaghetto «a vongole» piccante quanto basta e saporitissimo. Prima, però, le tartine di pancarrè, l’insalata russa e tutto quello che con pazienza prepara mia suocera per aprire le danze. E poi i gamberoni al forno e il pezzullo di baccalà, fino a qualche anno fa panato solo con la farina, ora avvolto nella pastella proprio come si fa a Roma.
Le mie parti preferite arrivano alla fine. L’insalata di rinforzo con cavolfiore, olive, acciughe, aceto e papaccelle, una particolare varietà di peperoni fatti sott’aceto, detti chiochiari. Viene servita come ultima portata e difficilmente riesco a mangiarla, anche perché devo riservare uno spazio per gli struffoli fatti da Amelia o da nonna Maria, la stessa che prepara un liquore al mandarino eccezionale. Alle volte, ci sono anche i tipici biscotti napoletani: mostaccioli, roccocò, susamielli, ma ciò che più conta per me è il cesto.
La strenna di Natale fatta in casa
La tipica strenna natalizia, quella che le aziende regalano ai dipendenti. Confezionata, però, in casa da mio suocero, che da settimane prima inizia a girare per botteghe e supermercati alla ricerca di ogni bendidio. Funghi sottolio e salamini, torrone e panettone, ricciarelli, scorzette di agrumi ricoperte di cioccolato (le mie preferite), marron glacés, cuneesi o altri cioccolatini ripieni. È un momento magico, quello del cesto, si apre tutto e si imbandisce la tavola, per distribuire infine gli avanzi tra tutto noi.
La prima volta che ho trascorso il Natale con loro non riuscivo a comprendere bene questo gesto d’amore. Continuavo a chiedere a mio marito se il cesto fosse «solo» per noi, come fosse impossibile mettere tanto impegno senza avere un ospite d’onore. È stata questa la lezione che più di tutte ho appreso dalla mia nuova famiglia, il piacere di prendersi cura di sé, di preparare qualcosa in pompa magna solo per noi. La cena della Vigilia è importante se la si vive in questo modo, il cesto va riempito con ciò che più ci piace senza aspettare che lo faccia qualcun altro al posto nostro.
Cucinare per se stessi
«Ne avevo voglia e allora l’ho fatto» dice sempre mia suocera parlando delle crêpes o della padella con salsiccia e friarielli che porta orgogliosa in tavola. Prepara le pizzette per me e mio cognato, ricorda le preferenze di ognuno, ma non dimentica se stessa. Da buoni fuorisede, approdati a Pomezia con il sogno di mettere su famiglia, i miei suoceri hanno imparato a colmare la distanza da quella che era la loro casa ricreando tutto da capo, una cena alla volta, da soli. Consapevoli che ne valeva la pena. E che, anno dopo anno, quel cesto di Natale si sarebbe arricchito sempre di più.