Il mito della carbonara (e ormai anche del maritozzo) ha finito per oscurare tutto il resto, ma a Roma c’è di più. Molto di più. Una tradizione di cui non si parla abbastanza per esempio è quella che avviene ogni anno la sera della Vigilia di Natale: un grande pentolone d’olio a scaldare, gli addetti ai fornelli chiusi in cucina per riparare gli altri dalla puzza (o profumo, a seconda dei punti di vista), lo scricchiolio della pastella… il rumore della felicità. È il fritto misto della Vigilia, un’abitudine tutta romana che fa sentire inclusi anche i vegetariani.
Verdure in pastella, ricotta e filetto di baccalà: la Vigilia romana
Dimenticate i supplì o i fiori di zucca: non siamo in pizzeria e nemmeno al ristorante (e poi, i fiori non sono neanche di stagione), in casa si friggono principalmente verdure. Carciofi, patate, broccoli, cavolfiori, e poi una dolce sorpresa, inaspettata per chi non è cresciuto nella Capitale: la ricotta fritta, la più romantica delle pietanze. Infine, poiché è pur sempre la Vigilia di Natale e il pesce non può mancare, via libera anche al filetto di baccalà, quello dorato e croccante, dalla carne tenera e saporita avvolta da una pastella spessa.
Non si sbollenta niente, le verdure si passano direttamente nella pastella (preparata con farina e acqua gassata, oppure della birra). Farla non è difficile, ma occorre un po’ di pazienza con il taglio dei vari ortaggi, ecco perché in quasi tutte le famiglie quello della frittura è un lavoro di squadra (ma riservato a pochi: troppe persone in cucina finiscono per rovinare i piatti). L’unico elemento a differenziarsi è la ricotta, che va passata nell’uovo e poi nella farina. I più tradizionalisti aggiungono anche delle fettine di mela, perfette per riequilibrare il palato dopo tanto sale.
La frittura al tempo degli antichi romani
Non ci sono fonti certe circa l’origine di questa tradizione, ma la frittura per i romani è sempre stata sacra, seppur molto diversa da come la intendiamo oggi. Come sia nata questa tecnica di cottura resta un mistero. Apicio racconta di pietanze fritte nel miele o in una miscela di garum, olio e vino, ma i testi al riguardo sono pochi e non sempre chiari. In ogni caso, è stata una delle ultime tecniche a evolversi. L'autore romano racconta che il liquido di cottura veniva poi versato sul cibo così da renderlo di nuovo morbido e succulento: la croccantezza – oggi sinonimo di qualità – non era contemplata. Occorre ricordare, inoltre, che l'olio d'oliva era utilizzato principalmente per l'illuminazione, la cosmesi e i rituali religiosi, oltre che per proteggere i legionari dal freddo, mentre erano poco noti i suoi vantaggi in cucina. Da Plinio, infatti, si apprende che l'olio al tempo aveva un sapore piuttosto acre e irrancidiva facilmente, per questo era poco apprezzato in ambito alimentare.
Oggi le cose sono decisamente cambiate, e l'unica cosa che conta è non far ammollare le verdure, che vanno preparate quindi all'ultimo e asciugate bene: il consiglio per un fritto a regola d'arte è quello di usare un buon olio (di arachidi, o anche extravergine d'oliva), una pentola capiente e friggere pochi pezzi per volta. Ne varrà la pena.
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