L’equivoco è a monte: dalle nostre parti si parla di Bordeaux come se fosse un territorio circoscritto, simile a Montalcino, Bolgheri o alle Langhe. Cade in questo qui pro quo anche Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, quando enuncia visioni apocalittiche sul futuro delle terre del Barolo, che potrebbero andare incontro a un’esplosione della bolla speculativa simile a quella che sta travolgendo i dintorni della Gironda. La verità, però, è che, semmai dovessimo fare un raffronto tra la zona clou del vino piemontese e il bordolese, potremmo farlo solamente con zone di punta come i comuni di Pauillac, Saint Julien, Saint Estephe e Margaux nel Medoc, oppure Saint Emilion e Pomerol sulla riva destra. Enclavi di modesta misura in una galassia gigante: meno di 10mila ettari a fronte dei quasi 100mila dell’intero comprensorio bordolese. Tanto per farsi un’idea, in Piemonte la superficie vitata supera di poco i 45mila ettari e la Langa arriva a malapena a 5mila tra Nebbiolo, Barbera, Dolcetto e altri vitigni.
Attenzione: la crisi non riguarda tutta Bordeaux
L’espianto è una misura estrema al quale si sta ricorrendo solamente in quei territori minori dove si produce Bordeaux generico o, al massimo, in appellation senza grande prestigio come Entre-Deux-Mers, dove, secondo Wine Searcher, le aziende rilevate pochi anni fa e già abbandonate o in vendita all’asta sarebbero numerose. Nei territori di punta sopraccitati, invece, la crisi sembra ancora lontana: le quotazioni per ettaro rimangono stabili stando ai dati di Vineyards Bordeaux, sito che monitora la situazione delle vigne girondine. Si va dai 350mila euro degli appezzamenti meno vocati di Saint Emilion e Saint Estephe ai due milioni di Pomerol e i tre di Pauillac, a fronte di superfici vitate che superano spesso - soprattutto nell’ultimo comune - i 50 ettari. Cifre che permettono ai proprietari degli Chateau Grand Cru classè di essere regolarmente presenti nella lista delle 500 persone più ricche della Francia secondo la rivista Challenges: Corinne Mentzelopoulos di Margaux , Philippe Casteja di Batailley e Trottevieille ed Edouard Moueix di Lafleur-Petrus e Trotanoy sono solo tre di decine di produttori che possono vantare patrimoni personali a nove cifre grazie al valore stellare delle loro tenute.
Il flop della campagna en primeur 2023
Certo, la campagna en primeur 2023 è stata un mezzo flop anche per i nomi più altisonanti, ma parliamo della prima battuta d’arresto dopo anni di continua crescita, e ad influire sulle quotazioni è stato anche il giudizio tiepido della critica sull’annata in questione - ritenuta inferiore rispetto a una 2022 da record - che si è sommato a un quadro economico globale piuttosto incerto. Non sapremo prima di 3-5 anni se si tratta di una battuta d’arresto momentanea o di una tendenza al ribasso destinata a durare.
Le Langhe sono più simili alla Borgogna
Dunque parlare di crisi nelle zone paragonabili alla Langa del bordolese è ancora prematuro; ipotizzare una parabola simile per Barolo e Barbaresco è quasi irrealistico, a maggior ragione se si considera che, a differenza dei grand cru del Medoc o Saint Emilion o dei grandi garage wine di Pomerol, Barolo e Barbaresco sono inimitabili, perché il nebbiolo non riesce a trovare una dimora d’elezione al di fuori di poche zone molto piccole del Nord Italia. In quest’ottica, la comparazione più azzeccata sarebbe quella con l’ineguagliabile pinot nero di Borgogna, la cui crescita comincia a rallentare solo ora dopo anni di rialzi folli che hanno reso i vini più importanti totalmente inarrivabili per i comuni mortali. Lì, in Cote de Nuits, le quotazioni medie per ettaro sono analoghe a quelle della Langa e si arriva a spendere quasi il triplo per una piccola porzione di uno dei Grand Cru più prestigiosi. Secondo il portale Vinetur, Bernard Arnault, patron multimiliardario di LVMH, avrebbe appena acquistato 1,3 ettari di Corton per la cifra monstre di 15,5 milioni di euro. In Borgogna, peraltro, le vendite delle vigne sono più frequenti che in Langa, perché i vignaioli si vedono costretti a scorporare e cedere alcune parti di proprietà per pagare tasse ereditarie tra le più alte al mondo.
L'interesse dei grandi investitori per le Langhe
Oramai è assodato l’interesse da parte dei grandi investitori per le vigne di Barolo e Barbaresco. Ma da qui a immaginare un territorio dove i vignaioli autoctoni sono in minoranza ce ne passa: i langaroli sono gente ostinata, ancor più attaccata alle proprie radici dei borgognoni, che comunque hanno ceduto relativamente poco ai titolari delle grandi holding. Semmai Petrini ha ragione quando dice che il cambiamento sociale è già evidente: i bar di paese sono stati rimpiazzati da enoteche o ristoranti - fortunatamente di livello alto o medio-alto! - alcune cantine che prima erano aperte gli avventori casuali sono diventate fortini inespugnabili. I paesi più frequentati dai turisti – quindi Barolo e La Morra, ma non Dogliani, Cherasco o Diano – si sono un po’ impoveriti da un punto di vista umano. Ma è uno scotto modesto rispetto ai benefici enormi che ha portato l’exploit di popolarità del vino langarolo: l’Albese in generale è un’eccezione rimarchevole nello scenario desolante della provincia italiana che, salvo rare isole felici, va incontro allo spopolamento per la carenza di prospettive economiche.
Il futuro delle Langhe è ancora in buone mani
Sul fronte dell’impossibilità di creare nuove aziende, ha ragione Roberta Ceretto quando dice che le Langhe hanno allargato i loro confini. In Roero c’è un fermento incredibile, in Alta Langa pure. Ma ci sono anche dozzine di giovani che fanno Langhe Nebbiolo, Barbera, Dolcetto o Pelaverga eccezionali ai margini delle vigne più blasonate. A loro si aggiungono i produttori che, pur non avendo i capitali per rilevare nulla, hanno conquistato la fiducia dei vecchi contadini e hanno preso parcelle importanti in affitto: per esempio Dave Fletcher, ex dipendente di Ceretto, o i fratelli Abrigo di Diano, che hanno preso un pezzetto di Ravera in gestione per fare Barolo e che, durante una visita quest’estate, affermavano: «Non è vero che in Langa non c’è una generazione di giovani entusiasti. Siamo tanti, grandi e piccoli, e ci confrontiamo molto più dei nostri predecessori!».