È stato un precursore, portavoce da sempre di un pane frutto di materie prime selezionatissime e della fermentazione naturale con varie paste madri a seconda del cereale utilizzato. Eugenio Pol, in arte "Vulaiga" (in dialetto locale il termine indica la neve quando scende leggera come farina) è una sorta di guru visionario e il suo pane continua a essere uno dei migliori d'Italia nonostante sia sempre più raro trovarlo. Così come è sempre più raro interfacciarsi con lui. Sono ormai in pochi ad avere la fortuna di poter scambiare opinioni e pensieri sul pane e la vita con lui, uno di questi è Andrea Cirolla – premiato come Panettieri Emergente dalla guida Pane e Panettieri d'Italia 2025 – che ci ha omaggiato di un suo scritto su Pol. Dedicato al pane.
Olfatto e metropolitane
Le stavo provando tutte, da giorni, e l’ultimo tentativo era in una salumeria storica di via Vigevano, a Milano, dove vivevo dalla fine dell’università (laurea in storia della filosofia con Dario Borso, altro maestro…). Avevo una stanza nella casa sul Naviglio di una signora e di suo figlio, al quale facevo da precettore tra un incarico editoriale e un articolo di critica, guardando al Pane – al fare il Pane – come a un futuro possibile. Il Pane mi appassionava, mi era sembrato da subito qualcosa di molto concreto, un emblema, un cibo semplice di una semplicità misteriosissima: materie prime per eccellenza – acqua, aria e cereali, testimoni della terra, nel fuoco in nuce della cottura – che sublimano in una materia nuova, tanto perfetta, tanto antica e rinnovabile da diventare Prima a sua volta.
Ma da tempo Vulaiga non riforniva la salumeria, e non riforniva tutta una serie di avamposti milanesi dove credevo di poter trovare il suo Pane. Risolutivo fu qualche settimana più tardi il Ratanà, il buonissimo ristorante di Cesare Battisti, cui sottrassi – pagando – una Micca di montagna, cioè Monococco, Dicoccum e Cappelli del Pereto, i Teneri di Renzo Sobrino, l’acqua e l’aria di Fobello, gioiello della Val Mastallone, e la capacità di Pol di agire sulla Madre e con la Madre come in un interplay jazzistico, nella dialettica dell’improvvisazione sull’interpretazione di uno standard. Una metafora calzante di quel che è da sempre la costruzione di un Pane. Un Pane di molti chili che aveva già tre settimane e proprio per questo era ancora più profumato e interessante nella grande busta con cui me lo trascinavo dentro la metropolitana, portandolo spesso al naso mentre gli altri passeggeri osservavano curiosi o scettici il gesto di un milanese acquisito, che a Milano sentiva di non appartenere e cui non sarebbe mai appartenuto.
L'incontro con Davide Longoni
Qualche anno più tardi, in una delle poche ore libere dal lavoro, mi trovo infatti a scriverne a Galatina, Lecce. Qui vivo e ho il mio forno, in cui produco un Pane che a quell’esperienza deve tutto o quasi, dove “tutto” significa il senso e l’orizzonte dei miei sforzi e “quasi” rivela il percorso, le esperienze che ognuno di noi attraversa per diventare ciò che è. Nel mio caso si tratta di un passaggio importante nel laboratorio di Davide Longoni, che mi ha insegnato a condurre produzioni grandi e complesse, a gestire lo stress, a risolvere problemi; della conduzione in solitaria del reparto panificazione di un assurdo locale meneghin-parigino nel centro di Milano, pasticceria fallita prima di tentare la commistione col pane francese; dei primi passi accanto a Silvia Cancellieri alla Cascina Sant’Alberto, luogo utopico nelle campagne di Rozzano.
Il rapporto epistolare con Eugenio Pol
Lungo il percorso, a partire dalle lettere di carta spedite e dalle telefonate in cui ne riprendevamo i motivi, che dapprima vedevano interlocutrice e intermediatrice l’indimenticabile Federica Giacobino, sua moglie, artista e maestra elementare, morta l’8 dicembre scorso… lungo il percorso, ho ricevuto il dono, che tutt’oggi conservo, di una fraterna amicizia con Eugenio Pol, maestro di visione prima che di cucina, quella particolare forma di cucina che è fare il Pane. Oggi che produco il mio Pane a Galatina (da Settecroste, ndr) continuo a chiedere a Eugenio, un mese sì e l’altro pure, di spedirmi il suo Pane. Non sempre trova il tempo, ma quando è tempo per me è gioia della riconnessione con quella prima volta, con la scoperta della Micca al bancone del Ratanà. Se dico “senso” e “orizzonte” intendo che l’opportunità di fare del “fare il Pane” un mestiere, per me, stava e sta ancora nella ricerca del semplice, del vero, del vero utile, del concreto, dell’opporsi a un mondo e a un sistema (agroalimentare e dell’allevamento) che è in rovina ed è una rovina – seppure imprescindibile, si dice – per l’umanità, troppo vasta – si dice – per essere rifornita e quindi nutrita da sistemi che rispettino ambiente e consumatori.
Ripartire dal Pane
Ripartire dal Pane per fare ordine, fare spazio e dare tempo a un nuovo inizio, ristabilire le basi e i principi, riunire quella manciata di operatori virtuosi del settore, dunque le migliori materie prime, per portare in tavola un argine al brutto e alla decadenza, alla cattiveria di tanto cibo e di chi lo assembla. Il Pane di Vulaiga mi ricorda questo, ogni giorno. Ogni giorno ritorna nei miei pensieri e nei miei sensi insieme ai gesti che fanno anche il mio Pane, e lavora come un argine pure contro la retorica e la nebbia prodotte da tanti che del suo Pane prendono ormai solo, e vagamente, l’estetica, affollando social network con storie e reel autopromozionali che paiono trailer di un film dei fratelli Cohen, coi panettoni in estate e le colombe in inverno, e qualsiasi cosa che possa fare del pane qualcos’altro, un gioco accattivante, un azzardo, una strizzata d’occhio.
Non è più una commodity
Parlare di Pane significa, dicevo – ed è la mia convinzione, – parlare di concretezza. Concreto significa innanzitutto «spessito, condensato, e, come dicono i fisici, nello stato solido» (dal vocabolario etimologico Pianigiani). Insomma, il Pane è reale; esiste ora e qui. Dal Pane sono dipesi e dipendono i destini di molti, destini «collettivi e singoli […] in vari modi e in diversa misura» (P. Matvejević, Pane Nostro, Garzanti, Milano 2015). La storia di chi fa il Pane non è una storia di protagonismi, ma di servizio, il servizio di donne e di uomini al prossimo loro, al popolo e alla sua fame. Servizio di donne e di uomini al protagonismo del Pane sulla tavola e alla sua trasmissione. Ma oggi che il Pane non è più una commodity e non gode più del ruolo da protagonista sulle tavole, sono le fornaie e i fornai a diventare protagonisti, celebrità da social e oggi anche della televisione, dove cercano sempre più spazio tra gli “chef” che da anni dominano la scena dell’intrattenimento.
Davanti a questo panorama in scale di grigi, già solo il pensiero di un fornaio come Eugenio Pol è luminoso: il suo nome offre una rassicurante scarsità di risultati in rete (spesso risalenti a una decina di anni fa), il suo lavoro ricostruisce quell’idea di concretezza che meglio si addice al Pane. Senza un profilo social, da sempre indifferente a ogni tipo di promozione e marketing, privo anche solo di un sito web - forse nemmeno più si trova pubblicamente un suo numero di telefono - Vulaiga continua il suo lavoro silenzioso sul Pane e per il Pane; per i clienti di una manciata di negozi nei dintorni della sua Valsesia e per i cuochi (tra i tanti: gli eredi di Aimo e Nadia, Trippi, Simona Benetti del Battipalo di Lesa, con la quale il rapporto di collaborazione va oltre il Pane; in passato Cannavacciuolo o Bartolini) che affiancano ai loro piatti il suo Pane presentando gli uni e l’altro sullo stesso piano, concedendo a entrambi lo stesso valore di portata.
Semplice e misterioso
È il Pane di Pol ad avermi chiarito la categoricità di questo cibo che sublima i suoi ingredienti e li trascende. Ogni vero Pane fa questo, ma il Pane di Vulaiga va oltre, conquista una categoria a sé, più alta, o forse più semplicemente ripristina una categoria perduta e di cui non si ha né si potrebbe avere memoria. L’ostinazione che lo ha portato in alta Valsesia e che lo convince, ancora dopo trent’anni, a panificare in solitaria nel laboratorio incastonato nella sua casa a Fobello, la purezza dell’aria, dell’acqua e dei cereali, delle farine, degli ingredienti secondari che sceglie, tutto questo rende il suo Pane qualcosa di semplice, come ciascuno di quegli elementi colti all’origine, e allo stesso tempo di profondamente misterioso, come un ricordo di cui ci si era dimenticati, come una ripetizione senza precedenti, o come il futuro (che vorremmo).