Giovani, carini e fin troppo occupati. Sono gli chef di ultima generazione, quelli nuovi di pacca. Sociali, contemporanei, viaggiatori. «Ci sono ragazzi – dice Luigi Cremona, giornalista e gastronomo – che a 25 anni hanno già girato mezzo mondo». Che si sono presi la loro ribalta accelerando con un po’ di violenza il trapasso generazionale che in molti settori dell’impresa in Italia fatica a procedere e che invece in cucina sembra più rapida ed efficace, anche perché è un mondo che va veloce e che consuma presto.
Identikit del giovane cuoco
L’identikit del giovane cuoco italiano non può che partire dalle differenze con i grandi maestri che per la verità in Italia scarseggiano un po’. Intanto è differente il contesto di partenza. «I ragazzi che cominciano oggi – dice Enrico Bartolini, tristellato al suo ristorante al Mudec di Milano e scopritore di talenti, molti dei quali cucinano nei suoi dieci ristoranti per un totale di tredici stelle Michelin solo parlando dell’Italia – si confrontano con un mercato evoluto, con clienti che conoscono la cucina gourmet. Abbiamo visto tanto e quasi tutto». Diverso l’humus, diversa la tecnologia: «I giovani ora sono più agevolati, lavorano in cucine con l’aria condizionata e con piastre a induzione, noi lavoravamo in inferni di trecento gradi», ricorda Gaetano Trovato chef di Arnolfo a Colle Val d’Elsa, e mentore per decine di giovani chef. «Quando io ero giovane, al Trigabolo di Argenta, nel buco del culo del mondo – ricorda invece Igles Corelli, altro ispiratore – tutto quello che si faceva allora era farina del proprio sacco. Ora, se mi chiedi che cos’è lo spaghetto allo scoglio vado su internet e mi vengono fuori venti ricette: è tutto più immediato». I social influiscono, certo. «I ragazzi sono forse un po’ troppo attenti alla presentazione, all’effetto di un piatto, sono un po’ gli influencer di se stessi – sostiene Cremona, che poi ammette – Certo io sono di un’altra generazione, faccio fatica a capire certe cose».
Oggi i tempi sono migliori
Tanti vantaggi ma anche un’asticella che si è alzata. «Io credo – riprende Cremona – che, generalmente parlando, il livello sia indubbiamente aumentato: gli chef sono molto più bravi di un tempo. E questo per molti fattori, a partire dalle scuole. Prima gli alberghieri erano una cosa terrificante, c’erano insegnanti senza passione, ora sono molto migliorati». E poi sono migliorati gli strumenti, secondo Corelli: «Un tempo c’era la padella, il fuoco, la legna. Adesso c’è l’induzione, gli ultrasuoni, il pacojet. Quindi anche il sapore della cucina è cambiato rispetto a quegli anni. Fare i fegatelli su una padella nera o sulla brace è totalmente diverso rispetto all’induzione». E il prodotto? «Non è affatto vero che era meglio prima; secondo me, anzi, è molto meglio adesso perché è più facile trovarlo e perché è molto meglio avere a che fare con un contadino laureato che con un contadino non laureato».
La formazione: viaggi & terroir
E poi i giovani chef viaggiano moltissimo. Il risultato è che «oggi nella cucina ci sono influenze nordiche, giapponesi, spagnole», dice Trovato. Nulla di male, a patto di mantenere il rapporto con il proprio territorio: «Fatta eccezione per i giovani più talentuosi, gli altri si dovrebbero concentrare sull’approfondimento del proprio territorio e sulla propria biodiversità, è la strada più concreta», suggerisce Bartolini. La stessa idea di Paolo Lopriore, da anni “autoesiliatosi” al Portico di Appiano Gentile, nel Comasco, che usa però toni molto più accesi: «Per me la globalizzazione in cucina ha fallito, ormai possiamo dirlo. Nel senso che noi abbiamo un territorio, un microclima che va rispettato. Bisogna uscire dal relais&chateaux, bisogna uscire dai social e trovare l’autenticità del proprio luogo, il bello dell’Italia è la biodiversità incredibile dal Nord al Sud, è assurdo mangiare l’agnello di Varvara ovunque, se lo fai a Como il cliente ti dice che è troppo grasso. O insegui una ristorazione gourmet che sappiamo bene che non è di territorio o insegui il territorio e devi caprie che qui l’agnello è più magro di quello che si mangia in Puglia. Altrimenti si finisce per raccontare un territorio che poi non si condensa davvero nel piatto».
Stili di vita (e di lavoro) diversi
Spesso si racconta che i giovani in cucina non hanno voglia di lavorare, ma da quello che raccontano i colleghi più anziani non è così. «Ma no, sono instancabili, viaggiano, studiano, comunicano», spiega Lopriore. «E poi – garantisce Corelli – non è che se noi facevamo 18 ore al giorno quello era giusto. Noi vivevamo di notte, ci ubriacavamo, era l’unico modo per divertirci. Oggi deve esserci un’organizzazione totalmente diversa, senza dimenticare che per fare del buon cibo ci vogliono ancora molte mani e molto tempo». «Ora noi facciamo tre giorni di chiusura da gennaio ad aprile e due nel resto dell’anno – dice Trovato – È un modo per dare stimoli e gratificare i più giovani». Si sente fortunato Emin Haziri, che giovane lo è davvero, a 29 anni si trova alla guida di Procaccini a Milano, aperto pochi mesi fa e già molto apprezzato. «Noi abbiamo tutto, abbiamo la tecnologia, abbiamo le conoscenza, abbiamo tante cose che prima non c’erano: per fare bene serve solo la testa giusta. E poi è importante come organizzi il lavoro, ora per fortuna in cucina non c’è più quella roba di urlare, spintoni e robe così. Io l’ho vissuto, un tempo era considerato normale, e un po’ ci sta. Ma oggi se al giovane dici qualcosa che non gli sta bene rischi che quello ti denuncia».
Pregi e difetti a confronto tra generazioni
Peccati di presunzione. Che però sono sempre meglio dei difetti degli chef delle generazioni precedenti. «Un tempo – racconta sorridendo Corelli – i cuochi si chiudevano in cella quando volevano condire le carni perché non volevano che nessuno imparasse il loro mestiere e molti di loro si sono portati nella tomba il loro sapere i racconti e le ricette». Una cosa impossibile ai giorni nostri dominati dai social, in cui condividere pensieri e azioni è fatidico per avere successo. «I giovani oggi fanno molto gruppo, sono un po’ tutti amici, si aiutano – osserva Cremona – Negli anni Ottanta e Novanta gli chef ti dicevano: non andare da quello là che si mangia male e poi magari nemmeno mai c’erano stati. Anche i grandi maestri che hanno creato la grande cucina italiana e di cui siamo ancora debitori avevano questo vizio. Lo stesso Gualtiero Marchesi dagli altri non ci andava e se andava ordinava una mozzarella. Ma oggi c’è una mentalità differente anche grazie al fatto che molti cuochi sono laureati e un’educazione di base aiuta sempre in qualsiasi attività umana».
La perdita di tanti talenti
Poi conta anche un po’ di fortuna. «Certo, il talento lo devi avere – avverte Corelli – Ma la differenza la fanno i treni che uno prende. Sai quanti chef bravi ci sono in Italia che nessuno conosce? La mia fortuna è stata incontrare negli anni Ottanta Giacinto Rossetti, il proprietario del Trigabolo: lui credette in me e si svenò per creare quel ristorante, ma quanti lo fanno? Ora incontri i localari, che hanno soldi e vogliono fare il locale per i loro amici: ma così rovinano i giovani che vengono fuori dalle scuole, li tengono lì sei o sette mesi e poi, quando i titolari si rendono conto che non guadagnano un euro, chiudono e questi giovani rimangono in balia di quelle situazioni e segnati dall’esperienza. Ne perdiamo tanti di talenti, così». A un pizzico di buona sorte crede anche Haziri: «Io per esempio ho avuto la fortuna di lavorare con grandi nomi, grandi chef e soprattutto grandi persone, in primis con Antonino Cannavacciuolo che mi ha insegnato come condurre la cucina, mi ha insegnato come organizzare il lavoro. E soprattutto mi ha trasmesso il senso della semplicità. Con la semplicità vinci sempre, mi diceva».
I consigli dei "maestri" per i giovani
Consigli per i giovani chef? Ognuno ha il suo. Per Bartolini i colleghi “under” devono «affermarsi per serietà e costanza, ma soprattutto far emergere il proprio palato dopo aver ascoltato i clienti che per primi si mostrano interessati. E poi li invito a essere sempre coerenti». «La cosa importante – suggerisce invece Corelli – è scegliere l’investitore giusto. Prima di firmare un contratto lo chef deve fare poche domande per capire l’obiettivo del ristoratore, per capire se quello è il treno giusto. E poi evitare di lavorare con gli chef che tirano i piatti: da quelli non si impara mai nulla». È d’accordo anche Cremona, che invita a fare attenzione alle aziende di famiglia: «In Italia c’è un difetto di nanismo individuale, noi vogliamo il controllo familiare, ci piace il piccolo, non c’è visione imprenditoriale più grande. Noi amiamo fare le cose piccole, ma questo non è sempre un vantaggio». Lopriore invece insiste: «Devono contestualizzare più la cucina in Italia: non solo come prodotto ma come cultura. Non devono andare dove il pubblico vuole, perché il pubblico è corrotto dai social. I giovani devono riqualificare la cucina italiana dandole un’autonomia di valori. Noi siamo la terra di Marchesi, che quando ha rivoluzionato la cucina italiana ha rifatto la lasagna e ha aperto un raviolo. Lasagna e raviolo. Noi non abbiamo mai avuto la qualità gastronomica, ma la qualità quotidiana». Per Trovato, «le nuove leve devono cercare l’equilibrio: è quello che porta al successo. Poi certo, l’umiltà. E infine devono osare, devono crederci».
I più promettenti secondo i maestri
Qualche nome di chef promettente? «Damiano Donati di Fattoria Sardi a Lucca, che ha fatto la scelta di andare in un agriturismo anche se a volte fa un pane un po’ troppo difficile», indica Lopriore. «Ad Alvito, in Val di Comino – medita Corelli – c’è un ragazzo talentuoso che si chiama Alessio De Michelis e tra l’altro è stato un mio allievo alla Gambero Rosso Academy: lui ha una bellissima mano, una grande capacità compositiva anche se non ha ancora l’equilibrio».
«Tra i giovani, mi piace Alessandro Cozzolino, di Villa San Michele, della Belmond», dice Trovato. Cremona di nomi ne avrebbe tanti, molti di quelli che sono passati per il concorso Emergente (chef ma anche pastry, pizza, sala) che da vent’anni organizza con la moglie Lorenza Vitali: «Oliver Piras, Mattia Pecis che è stupendo, Michele Spadaro, Domenico Candiano della Locanda Don Serafino, Juan Camilo Quintero, Stefano Terigi del Giglio, Ciro Scamardella». E Haziri, certo, che si definisce «arrogante sui miei obiettivi, ma presuntuoso no. Noi chef mica salviamo vite umane». No, vero, ma possono sicuramente migliorarle.