"Basta con le gare a chi fa il vino più Naturale, oltre c'è l'aceto". Intervista a Sarah Heller, Master of wine

16 Set 2024, 08:22 | a cura di
Sarah Heller riflette sul futuro del settore: “L’Italia sbaglia a fuggire dai tannini”. E sui Naturali: “Quel movimento ha cambiato il mondo del vino, ma ora non ha senso fare la gara a chi è più naturale"

Cresciuta tra Hong Kong e New York, padre americano e mamma coreana, Sarah Heller si è innamorata del vino in Italia. Dopo essere diventata Master of wine ha gettato alle ortiche quanto aveva imparato e ha costruito un modo tutto suo di raccontare il vino. I disegni di Sarah sanno cristallizzare l’anima di un vino, come dimostrano le "immagini di degustazione", realizzate da lei "al posto" di una scheda. Le pubblichiamo qui. Intanto, vi proponiamo l'intervista in cui la Master of wine analizza il mondo del vino italiano e non solo...  

 Pronti e via: quanto è reale e profonda la crisi del vino?

Dividiamo il discorso in due. Se guardo al mio mondo, quello dei collezionisti a Hong Kong come in UK, il settore è in buona salute, anzi direi in crescita. Basta guardare il valore dei vini italiani nelle aste. A livello globale, però, sta cambiando il paradigma. Anche dove vivo, nello stato di Washington, il più grande produttore di vino ha appena dichiarato a tutti i soci conferitori che taglierà la domanda del 40%. Con i volumi non si torna più indietro.

 Per molti sarà un problema?

Bisognerà fare scelte. Soprattutto in Italia dove il vino è stato un elemento sociale e non solo economico per generazioni, radicato nella cultura e ben collegato a un senso d’identità. Parliamoci chiaro: il messaggio che passava in alcune parti della filiera era un netto incoraggiamento a bere, anche tanto. Ora arriva un messaggio opposto: bere meno, ma di qualità. Anche gli importatori si muovono in questa direzione. Messaggio difficile da ingoiare, ma il business deve creare valore per i consumatori e ora siamo andati oltre. Per molti non è più sostenibile il giocattolo.

 Eppure, l’effetto premium può essere pericoloso.

Non tutti i prodotti devono diventare luxury, ma tutto deve essere più strategico e ben pianificato. Penso ad alcune cooperative: si è pensato solo ai volumi, a come espandere vigneti e vendite. Quella corsa all’oro è finita ovunque. La wine industry deve sempre porsi come obiettivo il lungo termine, ora più che mai.

Il mantra del momento: i giovani sono sempre più lontani dal vino. Perché?

Credo sia anche un’ossessione. Perché la generazione z dovrebbe assaggiare vino? Io penso che iI vino faccia parte di un percorso nella vita delle persone: è sempre stato così. C’è una progressione naturale e un periodo preciso che coincide con l’interesse e l’avvicinamento al vino. Ovvero quando ci si sistema, si prende casa, si fa famiglia o si guadagnano i primi stipendi più corposi. Il vino è associato all’idea di stabilità, all’essere adulti. Le nuove generazioni non vogliono essere adulti, bevono cocktail o birra perché fanno più giovane, ma poi cambieranno. La wine industry ha una crisi interna che scarica sulle nuove generazioni.

 Quando ha capito che il vino sarebbe stata la sua vita?

In Italia, quando lavoravo a Torino. Per 6 mesi sono stata in una trattoria di Torino che non esiste più, si chiamava Boja Fauss, proprio a San Salvario. E lì che ho iniziato a capire che il vino faceva parte di me. Non conoscevo tutte quelle varietà, hanno accesso la luce.

 Che ne pensa dei vini naturali, le piacciono? E della definizione?

Quando sono tornata da Torino a New York, ho iniziato a lavorare per un uno dei primi e più celebri importatori e distributori di vino naturale. Era il 2010, a Hong Kong sono arrivati 10 anni dopo. Eravamo pionieri di quel movimento, c’era tanto entusiasmo, avevamo produttori come Gravner o Joly. C’era un punto di vista ideologico: andare contro il conservatorismo del vino. Oggi mi sento di dire che quel movimento è andato troppo oltre. Il risultato naturale del vino è l’aceto. Che senso ha non intervenire? La bellezza è l’interazione tra la creatività umana e quello che la natura ci dà.

 Farinetti l’ha definito addirittura fascista per l’attitudine di alcuni produttori...

Non abbiamo bisogno di tanti additivi per produrre e il vino naturale ha aiutato molti produttori convenzionali a rivedersi in modo critico. Ma che senso ha la corsa a chi è più naturale? Quell’attitudine che divide in fazioni e micro-partiti: il vino naturale è diventata una parodia di se stesso. 

 Com’è nata l’idea di parlare di vino attraverso la sua rappresentazione grafica?

Ho iniziato a studiare prima la pittura e poi il vino. E ho sempre sentito stretto quel sistema oggettivo e simil scientifico tipico dei master of wine. Appena ho passato l’esame, ho pensato a come potevo inserire la mia personalità nella comunicazione del vino. Non potevo usare quel linguaggio, non m’interessava. Doveva essere qualcosa di facile, veloce, immediato, con un altro punto di vista. La rappresentazione grafica dei vini non è di certo un’idea nuova, penso agli accostamenti con i quadri e con i movimenti. Cercavo qualcosa di metaforico, astratto, ma intuitivo.

Da cosa parte per dar vita alle sue "immagini di degustazione"?

Dal colore, che è molto importante. Ci sono vini che sono profondamente rossi come carattere, ma anche blu, viola, verde, gialli. Ci penso come prima specifica, intensità e tonalità, poi la sua forma, struttura, consistenza. E la sequenza di sensazioni che regala: fiori frutti, sensazioni tattili. Mi concentro sui dettagli, sui suoi aspetti univoci ed originali.

 Arriva il messaggio al consumatore?

Francamente non pensavo fosse un grande progetto. Ho postato il primo progetto su instagram nel 2018 e tantissime persone mi hanno detto non avevano visto note grafiche così da nessuna parte. E tanti amici che non sapevano nulla di vino l’hanno trovato interessante e si sono avvicinati a questo mondo. Aveva catturato la loro attenzione e curiosità. E sono riuscita a superare una barriera con i miei clienti cinesi che non capivano tanti riferimenti a spezie o frutti che in Cina non ci sono o hanno nomi diversi.

Un linguaggio universale...

Sì, qualcosa di comprensibile a tutti. Con le note visuali paradossalmente è tutto più astratto, ma dunque più universale e facile da far proprio. Il vino non è un oggetto che contempliamo, ma un’esperienza: non è qualcosa che solo beviamo ma ci ricorda un preciso momento, sia del vino che di noi stessi.

La portiamo a tavola: un ristorante in Italia dove andrebbe ogni giorno?

Osteria More e Macina a La Morra: la loro incredibile combinazione di cibo in un ambiente così casual è per me l’essenza dell’Italia, la sua peculiarità. Non devi andare chissà dove per avere il meglio.

 Un vitigno italiano che ha ancora un grande potenziale?

Dico timorasso. Ora sono tutti eccitati con la sua scoperta, ma ha un carattere e un’acidità ancora da approfondire. Certo, quanti temi potremmo aprire. La sorprenderò, ma dico anche montepulciano e nero d’Avola. Nel mondo li chiamano anche pizza wines, ma ci sono grandi vini da quelle varietà che dimostrano quanto ci sia ancora d’inespresso.

Una zona sottovalutata da tenere d’occhio?

Ora sono tutti pazzi per il Piemonte, io amo Barolo e Barbaresco che per i clienti asiatici sono le alternative naturali alla Borgogna. What’s Next? Se penso ai mercati orientali, dico sicuramente Alto Piemonte come potenziale: i vini non sono ancora riconosciuti e ora sono all’avanguardia. Come l’Etna, che è da qualche anno è sulla cresta dell’onda.

Parla di Etna Rosso?

Sì, ma anche l’Etna Bianco sta iniziando ad avere una sua riconoscibilità. Le persone hanno realizzato che non possono solo bere Borgogna Bianco e stanno uscendo dal binomio frutto o legno. Ora si danza sul termine minerale, che suscita molto interesse tra chi beve italiano. Anche se devo dire che a livello internazionale non c’è ancora accordo su quale sia il grande bianco italiano.

Champagne da consigliare: un piccolo produttore e una grande maison?

Krug! Vabbè troppo scontato, allora dico Henriot e Agrapart.

Li abbiamo appena finiti di assaggiare, che ne pensa dei Barolo 2020?

Mi hanno impressionato. Certo, non hanno la struttura della 2019 o 2021. Un po’ come la 2018, sono vini di piacere, con un senso di bellezza tipico del nebbiolo, non sempre cosi strutturati. È una bellezza sottile, i produttori hanno capito che potenziale hanno e non provano più a fare qualcosa che non c’è nelle loro uve. Certo è un’annata con potenziale di invecchiamento medio.

Non stiamo scimmiottando troppo la Borgogna?

(Ride di gusto, ndr). Beh, un po’ sì. Mi sorprende questa fuga dai tannini in Italia, anche il consorzio di Montefalco non vuole che si indichi più il Sagrantino come il vino più tannico, neanche fosse un difetto. Penso che sia sempre una questione di gradualità. Quando parlo di vini italiani nelle mie lezioni, evidenzio come i tannini sono parte integrante della vostra identità. Non dovete perdere di vista quest’aspetto. La Francia ha una fissazione verso questi tannini totalmente fine e levigati, i rossi italiani hanno sempre una consistenza diversa, leggermente più granulosa: la parte tannica non è solo una componente tattile ma proprio una componente strutturale del vino: un’estetica italiana.

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