Durante gli scavi avviati nel 2023 nell’insula 10 della IX Regio di Pompei sono state messe in luce le strutture interne di due abitazioni, una delle quali nascondeva un’imponente sala da banchetti con pareti affrescate. Le scene dipinte rappresentano i momenti salienti che precedono la guerra di Troia: l’incontro fatale tra il giovane Paride e la bella Elena, che scatenerà il conflitto, e la condanna di Cassandra a non esser creduta per avere respinto l’amore del dio Apollo.
Non si tratta di scene casuali, ma di temi scelti per invitare gli ospiti del banchetto a meditare sulle conseguenze delle passioni che, se non regolate, possono portare a conclusioni disastrose. I cicli pittorici delle sale da banchetto servivano come spunto per le conversazioni conviviali: soggetti leggeri che conducevano a riflessioni più profonde sulla temperanza e sulla virtù in generale.
Triclini a ferro di cavallo
Quando era in uso, la sala veniva arredata con i tradizionali tre letti triclinari, disposti a ferro di cavallo attorno a una mensa posta al centro. Nella sala si muovevano schiavi, servitori, musicisti e danzatrici, mentre gli ospiti prendevano posto in tre su ciascun letto. Non è una coincidenza che il numero perfetto degli invitati a una cena elegante per Marco Varrone fosse compreso tra quello delle Grazie e quello delle Muse, ovvero non meno di tre e non più di nove. Naturalmente i banchetti potevano essere molto più affollati, come dimostra la descrizione fatta dal poeta Marziale, con la sua consueta ironia tagliente: “Inviti a cena trecento persone che non conosco, poi ti stupisci se non vengo, pur essendo invitato. Ti lamenti e ne fai una questione, ma Fabullo, a me non piace mangiare da solo”.
Il tormentone della pizza
Un’altra stanza della domus, presumibilmente appartenente al fornaio Aulo Rustio Vero, è salita agli onori delle cronache per il ritrovamento di un piccolo dipinto il cui soggetto è stato identificato l’antenato della pizza moderna. L'affresco ritrae un ampio vassoio d'argento su cui è posato un cantharus colmo di vino rosso, circondato da vari frutti tra cui alcune melagrane. Spicca un contenitore di colore bruno, forse una focaccia con bordi rialzati, oppure una cesta o un piatto, che contiene altri cibi di difficile identificazione per via dello stile corsivo della pittura.
Si tratta di un tema abbastanza comune in pittura, come ricorda l'architetto Vitruvio, e rappresenta i doni lasciati nelle stanze degli ospiti di riguardo per farli sentire a loro agio.
La notizia di questa proto-pizza ha fatto il giro del mondo, anche se non è la prima volta che si trovano raffigurazioni simili. Ad esempio, nel cubicolo della Casa dei Vettii è dipinta una focaccia con un grosso cornicione, su cui sono posati alcuni fichi maturi. È una pizza, o no? Il quesito rimane aperto. Ma al di là di questo, cosa mangiavano gli abitanti di Pompei?
Dove si mangiava a Pompei
Le eleganti sale da triclinio in cui si cenava comodamente sdraiati erano un lusso che non tutti si potevano permettere. I meno fortunati, i viaggiatori e chi era impegnato in diverse faccende durante il giorno poteva trovare ristoro nei vari locali che si aprivano sulla via pubblica.
Il termine comune in uso nella letteratura archeologica per indicare genericamente queste strutture è taberna, un termine che racchiude una vasta tipologia di locali. A Pompei se ne contano circa ottanta, un numero considerevole rispetto alle dimensioni della città. Si va dalla piccola Popina, detta anche Thermopolium, costituita da un solo ambiente affacciato sulla strada dove si potevano acquistare cibi e bevande da asporto, fino all’ampia Caupona dove era disponibile una vasta scelta di piatti e si potevano consumare i pasti comodamente seduti all’interno. Infine, c’erano gli Hospitium: “alberghetti” – o, diremmo, pensioncine – per accogliere i viaggiatori con carri e bestiame, solitamente posti nelle aree periferiche della città, per non causare problemi di viabilità. Questi ultimi assomigliavano ai moderni bed and breakfast dove gli ospiti avevano la possibilità di preparare i propri pasti in una cucina comune.
Di solito all’entrata delle tabernae si trovava un grande bancone contenenti diversi dolia (giare) in cui erano conservati cibi cotti e vino oltre ad acqua mantenuta calda. I locali erano forniti di pane, condimenti vari e attrezzati con cucine per preparare i pasti.
Il cibo che offriva la taverna
A proposito delle specialità che venivano servite, Giovenale ricorda i tempi antichi in cui ci si accontentava di poche verdure cotte su modesti focolari, confrontandole con i ricchi piatti di carne che si possono trovare nelle calde e confortevoli taverne. Altri autori descrivono le grosse salsicce che venivano cotte alla brace e i prosciutti appesi alle travi, mentre i vari affreschi rinvenuti all’interno rappresentano una grande varietà di alimenti: dalle uova, al pollame, dalle olive ai fichi.
In alcuni casi è stato possibile identificare i resti delle pietanze conservati all’interno dei contenitori, come nel Thermopolium della Regio V, una delle taverne meglio conservate di Pompei.
Anatre, suini, capre, pesce e lumache
In uno dei grandi dolia sono state rinvenute ossa di anatra, suino, capra (o pecora), pesce e lumache di terra. Non è chiaro se facessero parte tutti della stessa preparazione, ma è possibile che si trattasse di una sorta di stufato estremamente complesso, anche se non c’è traccia di ricette del genere nella letteratura coeva. Sul fondo di un altro dolio sono state invece individuate alcune fave spezzate. Potevano servire da contorno, ma anche come additivo per rendere più bianco il vino, come suggerisce Apicio nel De re Coquinaria.
Queste trattorie ante litteram erano frequentate da una grande varietà di persone. Non attiravano solo la plebe, ma anche avventori di varia estrazione sociale. In alcuni casi sembra che in alcuni gli imperatori fossero clienti abituali. Gallieno ed Eliogabalo, ad esempio, erano assidui frequentatori delle taverne, probabilmente attratti non solo dal cibo, ma dall’atmosfera conviviale che vi regnava.
Sulle pareti della caupona di Salvius nella Regio VI sono conservati alcuni affreschi che rendono l’idea di cosa si potesse trovare all’interno, oltre al cibo naturalmente. Si tratta di piccole scene accompagnate da un testo, simili agli odierni fumetti, con tre soggetti diversi: nella prima si vedono un uomo e una donna che si baciano, nella seconda due clienti che contendono un bicchiere di vino a una cameriera e infine un litigio tra due giocatori di dadi che si insultano e vengono spinti fuori dal locandiere.
Ghiri e gru, l’alta cucina
Se le taverne andavano bene per uno spuntino o un pranzo veloce, l’aspirazione massima era quella di passare la serata a cena stesi su un triclinio, bevendo e mangiando in compagnia di amici.
Scroccare un invito era l’ambizione dei molti che, non avendo una sala adeguata o i mezzi per ospitare, andavano alla ricerca di una cena gratis. Le strategie erano le più disparate, arrivando ad attendere all’interno delle latrine pubbliche – che erano aperte e “conviviali” – l’arrivo di qualche conoscente a cui sollecitare in invito, come ci racconta ancora Marziale: “Vacerra passa tutte le ore della giornata seduto in ogni latrina. Vacerra vuole cenare, non cacare”.
Invitare gente a casa poteva essere molto costoso, soprattutto se si avevano ospiti di riguardo. Molti autori antichi mettono in guardia i loro invitati sulla modestia del pasto che verrà loro offerto. Sempre Marziale, in un suo epigramma dichiara fin da subito che non sarà una cena lussuosa quella che aspetta i suoi amici, offrendoci un’accurata descrizione delle classiche tre portate della cena romana. Inizia con un’insalata di malva, lattuga, porri, menta e rucola e, sempre come antipasto, offre altre piccole portate fredde a base di uova sode con acciughe e tettine di scrofa con salsa di tonno (una sorta di “maiale tonnato”). La portata principale è costituita da un capretto – forse arrosto – accompagnato da fave e broccoli oltre ad avanzi di pollo e prosciutto. Infine, frutta e vino invecchiato per chiudere la serata parlando delle gare di quadrighe.
Riferimento principale è il libro di Apicio
Mentre è difficile stabilire quali portate fossero servite nelle varie taverne dell’epoca, abbiamo qualche indizio in più per quanto riguarda l’alta cucina. L’unico ricettario completo che ci è pervenuto dall’antica Roma è il De Re Coquinaria di Marco Gavio Apicio, composto dalla fusione di più opere databili tra il I e il IV secolo d.C. Nel trattato si trovano molte preparazioni estremamente ricercate come i ghiri ripieni cotti arrosto, le gru, le ostriche e le murene che venivano allevate in speciali piscinae di acqua salata. Un'idea si può avere osservando i mosaici di alcuni ricchi triclini che rappresentano i resti di cibo che venivano lasciati a terra alla fine del banchetto. Lische di pesci pregiati, conchiglie di molluschi, carapaci di aragoste, ossa di pollo, foglie di vite, olive, mele, pere, ciliegie, fichi, uva, mandorle, e anche un topolino che rosicchia un gheriglio di noce.
Vino tagliato con acqua di mare
Il vino di solito era tagliato con una parte di acqua – a volte di mare – e spesso veniva aromatizzato e addolcito con vari ingredienti come miele e pepe, ma poteva anche essere trattato come un moderno vermouth con l’aggiunta di assenzio e altre erbe officinali. Chi non badava a spese lo serviva ghiacciato d’estate, servendosi della neve che arrivava dalle pendici del Vesuvio trasportata in grandi contenitori isolati con la paglia, viaggiando su carri veloci che avevano la precedenza lungo la strada.
Fine dining, nostalgia e sarcasmo
Molti scrittori romani pongono l’accento su quanto si fossero corrotti i costumi con il passare dei secoli. Non bastavano più i cibi semplici di una volta, sani e genuini, per riempire lo stomaco: ora chiunque voleva pietanze raffinate.
Orazio, per esempio, evoca i bei tempi andati quando ci si accontentava di semplici uova e qualche oliva per arginare l’appetito, si mangiavano i pesci più comuni senza cercare triglie da un chilo e i polli non temevano la concorrenza dei pavoni. In una satira, il poeta dileggia un anfitrione di nome Nasidieno che assilla i suoi ospiti con eccessive e pedanti spiegazioni su ciò che viene servito in tavola: un cinghiale lucano ucciso mentre soffiava un leggero scirocco (sicuro indice di qualità), oppure una murena “presa gravida, perché dopo il parto la carne sarebbe stata meno squisita. Il sugo è composto da questi ingredienti – prosegue Nasidieno – Olio di Venafro, il primo uscito dalla torchiatura; salsa di pesci iberici marinati, vino di cinque anni fatto di qua dal mare e aggiunto in cottura (a cottura finita invece va bene, meglio di qualsiasi altro, il vino di Chio); pepe bianco e un po’ di aceto, di quello in cui girò, inacidendo, il vino di Metimna”.
Gli chef contesi dai più ricchi
All’epoca non esistevano ristoranti stellati, ma gli chef più in vista erano contesi a fior di sesterzi dai ricchi padroni di casa. Anche allora, però, veniva criticato chi spendeva una fortuna per le pietanze più esotiche, anziché preferire le materie prime della propria terra. La nostalgia dei tempi antichi regnava sovrana e tutti erano pronti a giurare che si stava meglio un tempo, quando il cibo era più semplice e meno elaborato. Alla fine, insomma, abbiamo molti più tratti in comune con i romani antichi di quanto crediamo. Forse potremmo ricominciare a mangiare sdraiati.