Allargare o no i confini della Doc Etna? Il tema è stato sollevato di recente in un’intervista al Gambero Rosso da Benjamin Franchetti, erede del ‘pioniere’ del vino Andrea Franchetti e titolare dell’azienda Passopisciaro nella frazione omonima di Castiglione di Sicilia, sul versante nord del vulcano. Oggetto dell’interesse è principalmente quell’areale che insiste a nord della strada provinciale definita “Quota Mille”, che attraversa i territori di Linguaglossa, Castiglione di Sicilia e Randazzo. Su quel crinale anche altri produttori iconici come Graci e Cornelissen allevano vigne (per esempio, in Contrada Barbabecchi) al di là del confine ufficiale della denominazione. Il dibattito è aperto da tempo. La Doc nata nel 1968 per opera di Carlo Nicolosi Asmundo (docente enologo nonché titolare dell’azienda Barone di Villagrande, oggi guidata dal figlio Marco) ha la forma di una “C” rovesciata: da nord a sud collega Randazzo a Biancavilla, ma lascia fuori tutta la parte occidentale che ricade nei territori di Adrano, Bronte e Maletto.
I più giovani a favore dell'allargamento
Alcuni giovani produttori considerano i confini della denominazione troppo restrittivi perché escludono dal brand Etna territori tradizionalmente vocati e vitati, dove peraltro capita di trovare estesi vigneti di grenache e di grecanico, quasi a spezzare il dominio del nerello mascalese e del carricante. La pensa così, per esempio, Giacomo Foti Randazzese, titolare delle tenute omonime nella zona di Nicolosi, sul versante sud: «Se si allarga oltre gli 800 metri sul versante nord, bisognerebbe allora includere i territori di Ragalna, Biancavilla e Santa Maria di Licodia che immotivatamente sono fuori dai confini della doc». Gli fa eco Gloria di Paola, giovane produttrice di vini naturali con Tre.mi.la, una piccola azienda con vigne a Trecastagni, Milo e Lavinaio, che già nel nome rivendica la varietà dei territori del vulcano e che da qualche tempo ha investito ad Adrano, sul versante occidentale: «L'Etna è un territorio circolare, la zona della doc dovrebbe allargarsi anche a Bronte e Adrano», dice.
Francesco Sanfilippo che gestisce con il padre Emanuele l’azienda Vigne di confine - un nome che dice tutto: tre ettari al confine, appunto, tra il territorio di Biancavilla a destra e il comune di Adrano sulla sinistra - suggerisce di ampliare a tutto il territorio etneo la denominazione chiudendo il cerchio aperto della “C” rovesciata: «A Biancavilla ci sono tanti produttori fuori disciplinare che producono vini di qualità. Noi abbiamo una vigna attaccata a quelle del Barone Spitaleri che fu escluso dalla denominazione del 1968. Oltre la Doc adesso c’è solo l’Igt Terre Siciliane. Ma il consorzio dovrebbe coprire in modo allargato tutta l’Etna perché comunque dà prestigio al territorio. L’Etna è un brand come tale e così dovrebbe essere riconosciuto. Non vedo il problema di dividere i territori: io sono appena un chilometro fuori della Doc. Non ci interessa tantissimo ma dovrebbero allargare l’area della denominazione».
Chi è fuori per scelta
Talvolta, non usare l’ombrello della Doc è una scelta deliberata. È il caso di Graziella Camarda, titolare di una piccola azienda sul versante nord, che si ispira a una filosofia di vinificazione tradizionale che oggi ricade sotto la casella dei vini naturali. Le sue vigne si trovano nel territorio della denominazione, ma Graziella preferisce declassare il vino per evitare di sottostare alle regole del consorzio: «Non utilizziamo nessun prodotto, se non quello che ci viene offerto dalla natura, per realizzare un vino lineare e senza difetti. Se avessi proposto il Rosato 2019 in commissione sarebbe stato sicuramente bocciato per il colore». Graziella è consapevole che i suoi vini interessano una fascia di appassionati disinteressati all’ufficialità delle denominazioni e attratti dal naturale. Su quattro referenze, tre escono come Terre Siciliane Igt mentre il Camarda da vigna vecchia blend di Carricante, Catarratto, Insolia, Minnella esce semplicemente come “vino bianco”.
In salita per scappare dai cambiamenti climatici
Non mancano poi considerazioni legate al cambiamento climatico. Le ultime annate sono state molto calde, tanto che, spiega Michele Brusaferri, agronomo della Tenuta Tascante di Tasca d’Almerita: «Abbiamo dovuto reagire rinunciando a defogliare e adottando più trattamenti per fronteggiare il caldo. I cambiamenti del clima sono importanti e veloci: si contrastano interpretando la stagione con strategie momentanee, ma possiamo anche dire che il limite degli 800 metri può essere tranquillamente superato. Quelli a nord sono terreni appetibili ma è complicato cambiare perché sembra che si fa un favore a qualcuno. Anche allargare oltre Randazzo sarebbe interessante. Ma i confini furono bloccati più per motivi ‘politici’ più che agronomici e oggi cambiarli dopo decenni prevedrebbe molte discussioni».
Lo stesso messaggio arriva da Federico Graziani, sommelier romagnolo che ha scelto l’Etna come sua patria elettiva: «Il cambiamento climatico è evidente. Prima il 70% delle annate era normale, il 15% erano secche e il 15% piovose. Adesso il 70% delle annate è caratterizzato da eventi estremi che devi interpretare da zero. Dopo l’equilibrio della ’19, la ’20, la ’21 e la ’22 sono state annate molto calde. A mio avviso si andrà per forza verso l’alto: io ho già piantato vigne di Carricante a 1200 metri. Viceversa, se allarghi la denominazione verso il mare, l’Etna diventa un vino da spiaggia: lì le pendenze sono inesistenti, quando ti avvicini al livello del mare non funziona più”.
C’è chi dice no all’allargamento
Tuttavia, sono tanti i produttori che ritengono inopportuno affrontare il tema, anche nella logica della tutela di una denominazione che comincia ad affacciarsi sulla scena dei più grandi territori vitivinicoli solo da pochi anni. Per esempio Mariarita Grasso, marketing manager dell’azienda Filippo Grasso a Calderara Sottana, oppone un chiaro “No” all’espansione dei limiti della doc. «Oggi si parla molto del cambiamento climatico: in effetti abbiamo vissuto annate calde come la ’21, la ’22 e la ’23, ma poi dovremmo vedere come sarà tra dieci anni. Anche nei decenni passati si è registrata una ciclicità di annate fredde e calde: mio padre ha 85 anni, fa il viticultore da sempre e le ha viste tutte», assicura.
Sul tema dell’allargamento dice parole chiare anche Giuseppe Russo, che con l’azienda Girolamo Russo rappresenta una delle punte di diamante dell’Etna: «Non bisogna correre il rischio dell’apertura. Quali criteri andrebbero adottati? Usiamo il criterio storico risalente a un tempo in cui tutta l’area dell’Etna e quelle circostanti erano vitate? Ma così allora arriviamo fino alla Piana di Catania. Le vigne posizionate in alto sono degne di rappresentare l’Etna, ma non vedo la necessità di allargare la Doc. Non è un grande problema: sono vini dell’Etna anche se non sono Doc. Il rischio sarebbe quello di aprire a chi non fa qualità. La qualità va oltre le etichette».
Le proposte alternative all’allargamento
Anche Federico Curtaz, l’enologo valdostano protagonista del successo dei bianchi di Tenuta di Fessina e oggi in proprio con la sua azienda sul vulcano, è contrario all’allargamento della Doc: «Credo che si debba arrivare fino al confine del pistacchio a Biancavilla, né ha senso aprire a nord a contrade più alte come Sciaranuova e Rampante. Allargare significherebbe togliere valore a chi ci ha creduto per primo. I vini sono frutto della vocazione. Semmai è meglio togliere di mezzo i vitigni che non servono: per esempio, togli il catarratto e fai l’Etna Bianco solo con il carricante. Volete tenere la minnella? Ok, ma è un vino del cavolo. Sì, certo, ci sono anche grecanico e grenache, ma non è Etna doc come Carricante e Nerello Mascalese. Mentre il cappuccio esprime il carattere dell’Etna».
Mario Paoluzi, romano ma etneo di adozione, titolare dei Custodi delle vigne dell’Etna lancia un'altra proposta: «È vero che questo è un territorio giovane che ha più capacità di adattamento rispetto a territori con una storia più antica, ma oggi si parla di chiudere la Doc, non di allargarla. Nei prossimi tre anni sarà congelata e si cercherà di contenere le richieste. La Docg è una strada ormai tracciata, semmai potrebbe nascere una seconda Doc meno restrittiva».