È il salone del formaggio artigianale italiano con cui ogni anno Vincenzo Mancino (padre di Dol – Di Origine Laziale, unico format di distribuzione-valorizzazione delle produzioni regionali) porta a Roma le migliori espressioni casearie delle Penisola, da Nord a Sud. Parliamo della due-giorni di Formaticum, iniziativa (in collaborazione con La Pecora Nera Editore) che propone l’assaggio e il contatto diretto con prodotti e storie da un’Italia introvabili nei siti main stream.
Storie che disegnano la mappa di un’agricoltura di nuova generazione che parte dalla cultura rurale di questo Paese e la rilancia verso un futuro fatto di sostenibilità, attenzione all’ambiente, conoscenze tecniche e tecnologiche e passione, tanta passione, in un mondo che esalta la velocità e la logica del prezzo e del consumo facile rispetto allo spessore e alla consapevolezza di cosa si mangia. «Se non cambia qualcosa, tra pochi anni finirà tutto questo – si indigna Mancino – Io faccio Formaticum solo nel tentativo di fare capire qual è il mondo che finirà, cosa non potremo più assaggiare, qual è la ricchezza della nostra Italia. La spina dorsale di questo Paese si sta spezzando».
Conciato di San Vittore, un superstite
Partiamo dalla “sesta storia”, quella che ha come protagonista lo stesso Vincenzo Mancino come baluardo di uno dei formaggi storici della campagna romana: il Conciato di San Vittore, realizzato con solo latte crudo di pecore locali secondo la ricetta originale lasciata da Teodoro Vadalà, casaro calabrese approdato nel Lazio che Vincenzo convinse a condividere la sua conoscenza e addirittura ad andare tra i detenuti di Rebibbia per insegnare loro a produrlo in un piccolo caseificio solidale all’interno del carcere. Oggi il Conciato originale viene prodotto a Torrita Tiberina nel caseificio AgriIn della famiglia Deroma in partnership con Mancino e Dol che lo distribuisce. La particolarità più identitaria – a parte il latte crudo che viene da animali che pascolano e dunque mangiano solo essenze legate al territorio di origine – è nella concia, ovvero il trattamento con cui si prepara la forma ad evolvere nel tempo senza essere aggredita da insetti e batteri nocivi: è a base di erbe aromatiche spontanee e coltivate tra cui salvia, ginepro, rosmarino, finocchio selvatico, coriandolo e anice. La conciatura è una tecnica molto complessa che deve essere eseguita con grande attenzione e precisione e con strumenti di legno, come la frasca. Un procedimento che dona al formaggio aromi e sapori del tutto particolari e unici. Assolutamente da provare.
I 5 assaggi da non perdere
Nel salone di Formaticum all’interno dell’ex Mattatoio di Testaccio a Roma, abbiamo poi selezionato 5 assaggi e 5 storie da conoscere per capire davvero cosa intendiamo quando parliamo di formaggio artigianale e del suo legame con il territorio. Storie che possono anche essere la base teorica per un “vero” rilancio qualitativo della nostra agricoltura nella chiave di tutela e recupero di ambiente e di identità.
Chalet del Formaggio
Avella (AV)
Teresa e Angela Pecchia sono due sorelle, rispettivamente di 28 e 22 anni, che portano avanti l’azienda agricola dei nonni nella patria delle nocciole (il nome del frutto, infatti – corylus avellana – viene proprio da qui). Siamo nell’Appennino Campano, tra i monti del Partenio, dove secoli e secoli di storia si sono intrecciati e dove la modernità ha portato però impoverimento e sradicamento. Qui, nel passato, la pecora ottomana si è incrociata con la razza locale: nasce la razza Turchessa, una pecora con la testa nera e la coda grassa come la Laticauda, a duplice attitudine (carne e latte) che i nonni di Angela e Teresa cutodiscono e tengono in vita, tanto da essere la loro – insieme a quella dello zio – l’unica famiglia ad allevarla. Dal 2013 soltanto, però, i genitori delle due sorelle decidono di investire tutto qui e cominciano a trasformare il latte che fino ad allora vendevano a caseifici della zona. «Una scelta che ci ha “obbligate” a restare in azienda – sorride Teresa – Nel 2018 siamo riusciti a far riconoscere la Turchessa e a inserirla nell’elenco delle razze italiane, una razza a rischio di estinzione di cui sono rimasti in vita solo 1.800 esemplari, i nostri. Speriamo però che il suo allevamento possa riprendere, visto che i formaggi dal suo latte ora rientrano anche nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali (PAT)». La Turchessa produce “poco”, appena un litro al giorno: un latte che dà al formaggio tutto il bouquet dei pascoli in cui vive, immersi in un ambiente sub-mediterraneo che dona essenze particolari ed intense. «La Turchessa partorisce una sola volta l’anno – racconta Teresa – ma è stupefacente la resa del suo unico litro di latte quotidiano: arriva al 30% a differenza della normale resa del latte ovino che si aggira intorno al 18-20 per cento. Quando i responsabili del settore agricoltura della Regione sono venuti a fare i loro controlli qui, sono rimasti impressionati da questo dato e pensavano che fosse una truffa. Poi hanno toccato con mano la realtà!».
Il formaggio è il pecorino tradizionale prodotto con la ricetta della nonna. «Da circa tre anni, però, abbiamo imparato le diverse tecniche di affinamento – spiegano le sorelle Pecchia – E così abbiamo a unire il sapore deciso del nostro latte a quello di prodotti particolari come vinaccia, pepe, frutti rossi, rucola…».
Un’arte che Teresa e Angela hanno cominciato a imparare e a praticare, spingendosi anche oltre a sperimentare la realizzazione di taleggio e brie di pecora – ancora in fase di elaborazione – e di un caciocavallo ovino – a pasta filata – che invece dovrebbe arrivare presto sul mercato. Noi lo aspettiamo con trepidazione.
Storico Ribelle
Gerola Alta (SO)
Bitto. Non si può pronunciare questo nome se parliamo di Storico Ribelle, eppure questo vero e proprio “monumento al formaggio di alpeggio” è la materializzazione di quello che era il Bitto un tempo, prima della decisione di allargare e di molto le maglie della Dop lombarda e da spingere questo manipolo di affinatori e produttori a sfilarsi e a mantenere in vita la cultura di questo antico formaggio valtellinese della Valle del Bitto.
Lo Storico Ribelle è nome ben noto ai cultori del formaggio tradizionale. È stato anche protagonista di polemiche e battaglie storiche, da quella appunto con il Consorzio del Bitto da cui nel 2016 si sono completamente separati (perché non accettavano che la denominazione fosse stata estesa a tutta la provincia e che si permettesse di allevare le mandrie con mangimi per la produzione di Bitto), allo “scandalo” che fece qualche anno fa la vendita di una forma di 13 anni a 300 euro il chilo. «Ma di cosa c’è da stupirsi? – si chiede Carlo Mazzoleni (in foto) dell’associazione – Parliamo di un formaggio prodotto solo quando le bestie sono in alpeggio, di latte lavorato in montagna entro un’ora – al massimo – dalla mungitura, di forme che vengono poi selezionate per essere affinate: ognuno di questi formaggi è un’opera unica, ha la sua identità e la sua vita: la stagionatura dipende da come la forma evolve nel tempo, ognuna è una storia a sé». La produzione si attesta ogni anno intorno alle 800-1.000 forme al massimo: l’associazione dello Storico Ribelle le raccoglie a circa un mese-un mese e mezzo alla produzione e lo porta a maturazione nella “casèra” in cui confluiscono tutte le produzioni dei 12 produttori che conferiscono qui, nel borgo di Gerola Alta (SO) che vengono acquistate mediamente a una cinquantina di euro/chilo (più del doppio di quello standard).
Il modo migliore per capire il cuore di questo cacio di montagna è la degustazione comparata: da provare nelle tre annate più disponibili come ad esempio la 2019, 2021 e 2013. È un percorso gustativo che accompagna dal gusto più immediato e conviviale del cacio più “giovane” fino alle punte aromatiche, di sapidità e di fragranza e scioglievolezza di quello più anziano. Si sentono – a intensità, concentrazioni, pungevolezza diverse – le erbe di montagna che mangiano le mucche e che l’attività enzimatica legata al tempo porta ad evolvere.
La Bersagliera
Campagna (SA)
Antonino e Vitantonio Perrone sono i due “sacerdoti” della Podolica campana da cui nasce un caciocavallo (anzi due, uno di collina e uno di montagna, assolutamente diversi) che difficilmente si può trovare in circolazione. L’uscita autostradale sulla Salerno-Reggio Calabria fa scorrere dai finestrini un territorio particolarmente brutto e insignificante, ma basta addentrarsi e salire un po’ per arrivare in un mondo unico. «La Bersagliera sorge a ridosso del Monte Polveracchio con i suoi 1.800 metri di altitudine, ma le nostre 200 vacche durante la stagione fredda pascolano in collina, più sotto, a circa 300 metri sul mare – racconta Antonio – Noi pratichiamo la transumanza, come una volta: ci spostiamo dai comuni di Battipaglia ed Eboli fino alla cima del Polveracchio, in estate: qui nasce il caciocavallo di montagna, di solo latte di alpeggio». L’azienda dei fratelli Perrone è l’immagine di cosa significhi “benessere animale” nel vero senso del termine e non ai soli fini di marketing. Tanto che probabilmente anche un vegano farebbe fatica a dargli eticamente contro per la produzione di formaggio: «Qui il ciclo biologico viene rispettato – spiega Antonio (foto) – Non togliamo il vitello alla madre e al suo latte. Lo allontaniamo solo la sera e la mattina lo rimettiamo sotto alla madre, così che stia in sua compagnia e possa nutrirsi col suo latte. Facciamo un po’ per uno!»
Questo caciocavallo è la dimostrazione didascalica di quanto possa far differenza la diversità di pascolo e di ambiente per il latte: ci sono essenze e fioriture diverse e con diverse concentrazioni e intensità aromatiche, in inverno c’è anche un minimo di integrazione alimentare, Il pascolo fa la differenza. L’erba di montagna è più concentrata e ricca». Sono entrambi due grandi prodotti che si propongono con profumi e sapori netti e decisi, più rotondo e dolce quello di collina, più muscoloso e concentrato col suo colore giallo vivo, quello di montagna che mostra un’evoluzione più marcata e spinta anche se ha diversi mesi in meno dell’altro.
Antonio è un imprenditore agricolo colto ed evoluto, ha piena consapevolezza del suo lavoro e del valore dei suoi prodotti. Ma a pochi giorni dalla bufera infuocata delle proteste e delle rivendicazioni degli agricoltori, lui ha un solo pensiero per la politica e una sola domanda all’Europa. «Come è possibile parlare al tempo stesso di green deal e di allevamento intensivo?» Una domanda-ossimoro su cui dovrebbe riflettere e rispondere una Politica che voglia restare fedele al valore di governo nell’interesse della collettività e del bene comune e alla missione di immaginare un futuro possibile.
Alba Soc. Agricola
Campolieto (CB)
Michela aspetta che arrivi anche Nicola al banco dei formaggi. «Si, perché la nostra p una storia a due e non posso raccontarla senza la sua vicinanza», fa Michela Bunino, 38 anni, laureata a Pollenzo in Scienze Gastronomiche: è lì, in Piemonte che si sono conosciuti e innamorati lei e Nicola Del Vecchio, entrambi studenti fuorisede, lei dalla Valpellice e lui dal Molise, dal profondo Sud dove poi insieme decideranno di vivere la loro Alba.
Perché Alba? Una citazione delle Langhe? «No. Alba era la nonna di Nicola: è lei che ci ha trasmesso gli 85 ettari dove adesso siamo noi. Ma anche perché qui per 365 giorni l’anno viviamo l’alba, il sole che sorge e che ci stimola a immaginare una nuova alba, quella del futuro, quella di un nuovo inizio». Una sorta di Sol dell’Avvenire, se non fosse linguaggio del passato e che oggi è (per fortuna?) più realistico e positivo chiamare Alba quell’aspirazione di vita in cui la “politica” coincide con il privato e con scelte di vita che poi incidono anche sul mondo circostante. «Alba è un’azienda a ciclo completamente chiusa – ci spiega Michela – È un esempio concreto di cosa sia oggi un’azienda Agroecologica, il modello che Nicola ha studiato e teorizzato a Pollenzo e a cui qui abbiamo dato corpo, tanto che siamo partner e anche sede didattica dell’Università piemontese». Lo start iniziale è stato per loro la produzione di extravergine legata al recupero degli oliveti abbandonati. Poi parte l’allevamento di pecore e capre: «Animali che qui hanno da sempre convissuto, perché mangiano essenze diverse sul campo e convivono in perfetto equilibrio con l’ambiente. Noi lavoriamo il latte prodotto per circa dieci mesi l’anno dalle nostre 250 capre e pecore, senza dividerlo, nel solco della tradizione molisana, e da cui nascono formaggi che quella storia raccontano: ne è simbolo e bandiera il cacio-ricotta», che unisce in una sola forma la lavorazione della cagliata e la ricottura del siero per la ricotta: un processo in cui si raggiungono gli 80-82 gradi per tenere insieme il tutto.
Il caseificio è a circa 750 metri di quota sul lago di Occhito, tra Molise e Puglia. Nel 2020, qui, i due mettono su anche un laboratorio di trasformazione delle verdure e della frutta prodotta in azienda. E dai cacio-ricotta e dalle caciotte miste tradizionali, arrivano a produrre anche altre tipologie come lo stracchino e le creme di formaggio, oltre ai barattoli di cacio-e-ova pronte e fatte con gli ingredienti prodotti in azienda. I formaggi sono tutti giocati sulle diverse acidità e freschezze, a partire dal cacio-ricotta per andare poi sulla robiola e sugli affinamenti particolari, condotti in partneship con un’azienda piemontese che coltiva fiori e germogli. «Avevamo due strade – racconta Michela – Affinare per dare un carattere nuovo a formaggio o accompagnare e valorizzare le essenze di cui si nutrono i nostri animali e che danno identità ai nostri formaggio». È evidente la scelta che hanno fatto Michela e Nicola. E si sente ampiamente nelle forme che propongono al mondo.
Ps. Da non perdere la crema di formaggio, composta da 80% di formaggio rustico grattugiato, unito a latte e olio extravergine e quindi stabilizzato con acquavite di vinaccia. Una delizia.
La Porta dei Parchi
Anversa degli Abruzzi (AQ)
Viola Marcelli si presenta mettendo avanti suo padre Nunzio: lui non c’è a Formaticum, ma la sua figura è talmente “ingombrante” che si può solo raccontarla e citarla subito per riuscire ad andare oltre. Nunzio (nella foto qui sotto), insieme all’amico Gregorio Rotolo (scomparso nel 2022 a soli 62 anni) è uno dei padri della Nuova Pastorizia abruzzese: sono stati loro a dare un volto nuovo e rigoroso alla narrazione e alla pratica della transumanza, alla possibilità che questa cultura identitaria del territorio potesse essere appetibile per le nuove generazioni e avere un senso nel futuro.
Ne è plastica materializzazione la figlia Viola: 38 anni, “fuggita” prima per studiare e poi per lavorare tra Firenze-Milano-Roma-New York, rientra ad Anversa 9 anni fa. E decide che la sua esperienza può dare senso all’avventura avviata 35 anni prima dal padre e poi condivisa dalla madre che dalla Toscana si era trasferta qui per studiare i pascoli di un’area che era oggetto di studio e di tesi anche di Nunzio: è dalla loro unione e dalla loro passione che nasce l’azienda agrituristica cera e propria, concretizzazione di ciò che avevano in mente e prodromo a ciò che è ora: meta di pellegrinaggio di appassionati da tutto il mondo che si prenotano per tempo solo per poter trascorrere con i pastori l’esperienza della transumanza sui tratturi abruzzesi, tre volte l’anno.
«Sono stati loro, mio padre, Gregorio Rotolo e Giulio Petronio (entrambi morti nelle stesso anno) a far conoscere al mondo la nostra storia, quella della pastorizia come cultura identitaria di Abruzzo. Qui nasce, nel 1999, l’iniziativa Adotta una pecora: ci ha portati in paesi lontani come Usa e Giappone dove le nostre terre sono state raccontate in molti modi – racconta oggi Viola – Ora abbiamo un agriturismo che ha molte facce: esperienze rurali, macelleria per le carni e gli arrosticini di pecore e agnelli, il caseificio dove oltre alle tradizionali lavorazioni presamiche si sperimentano anche altre strade». Come quella, incantevole, del Marcetto: una rielaborazione in chiave moderna del formaggio coi vermi. Un sapore deciso e importante, dato dal pecorino di almeno tre anni grattugiato e unito a latte che torna a fermentare e a trasformarsi in una crema spettacolare, dolce e piccante insieme: appaga la bocca con un piccolissimo assaggio e la lascia incantata da note di frutta secca ed erbe di campo per almeno un’oretta; modo davvero spettacolare di terminare un assaggio, perché dopo per un po’ non ci sarà altra storia!