Il vino naturale, artigianale, non interventista – chiamatelo come volete – per pochi minuti è diventato protagonista di una grande, seppure discutibile e divisiva, trasmissione televisiva. Sulla Rai, in prima serata. Era già successo in passato, ma è innegabile che se a farlo è Report nella nuova inchiesta sul vino, andata in onda domenica 18 febbraio, il risalto è notevolmente maggiore. E non tutti avranno gradito. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, nonostante gli errori – il servizio non raggiungere la sufficienza – retorica goffa e malmostosa, esempi di cantine con comportamenti fraudolenti che lasciano intendere che tutti fan così (ma non è assolutamente vero) e contrapposizioni poco producenti, la trasmissione ha avuto il merito di aver dato spazio a un pezzo del mondo enologico che si è fatto largo negli ultimi vent'anni. Un po' urlando, un po' sbattendo le porte. Un percorso pieno zeppo di errori, perché di sbagli a livello comunicativo i vignaioli cosiddetti "naturali" ne hanno fatti molti, ma ci torniamo.
Il merito di Report
Sono passati dieci anni da quando il regista statunitense Jonathan Nossiter, autore nel 2004 del film Mondovino e fondatore di Orto Vulcanico La Lupa, un progetto di agricoltura rigenerativa nato nel 2016 poco distante dalle rive del lago di Bolsena, ha lanciato il documentario Resistenza Naturale (2014) raccontando le storie di alcuni dei vignaioli simbolo dell’opposizione ai vini convenzionali tra cui Stefano Bellotti di Cascina degli Ulivi, Giovanna Tiezzi di Pacina, Elena Pantaleoni di La Stoppa e Corrado Dottori de La Distesa. In quanti l'avranno visto? Parlo del pubblico generalista e non della "bolla" in cui vivono giornalisti, enologi e vignaioli. Molto pochi probabilmente.
Quindi se Report ha un merito è quello di aver parlato di una frangia del vino che ha sempre subito più sfottò che riconoscimenti dai suoi simili, in particolare dall'industria e dai piccoli e medi produttori convenzionali. A partire dal nome: naturale. Il livore che si diffonde quando si parla di "naturale" negli ambienti del vino tradizionale è ingiustificato. "Il vino naturale non esiste", quante volte l'ho sentito dire. Anche a Report. "Non c'è niente di naturale nel fare vino". "Puzza", "è torbido", "sembra un succo di frutta". Vi risparmio il resto.
Non è un problema di nome
È il vino il problema o il modo con cui viene circoscritto? Come dovremmo chiamarlo? Vino più naturale di altri? Vino con meno interventi in vigna e cantina? Vinofighetto? Da hipster? Vino da centro sociale? Facciamolo, cambiamogli nome, chiamatelo come volete, anzi chiamiamolo vino artigianale, ma diamogli voce. È un mondo consolidato, non vende bottiglie su larga scala, ma ha saputo farsi voler bene e apprezzare dai consumatori. Gli errori non mancano, pure nel gusto, ci sono omologazioni e plagi fatti male pure nel mondo artigianale. Ma non è questo il punto. Il naturale è, innanzitutto, una legittima risposta a una domanda di mercato che esiste da decenni. Non deve essere contrapposto a qualcuno o qualcosa (naturale vs convenzionale), è semplicemente di un'opzione di mercato, legittima quanto le altre e orientata a un pubblico diverso.
Tanti di questi vini sono entrati per merito nei menu dei ristoranti stellati e forchettati, hanno riempito gli scaffali di enoteche e wine bar che vendono solo vino "naturale" (mannaggia, l'ho ridetto), hanno trovato un mercato. I vini straordinari di Josko Gravner convertito alla ribolla, quelli di Pacina (c'era ai tempi del doc di Notisser), Emidio Pepe, Giovanni Canonica, Stefano Amerighi, Giuseppe Rinaldi (che non c'è più, ha lasciato tutto alle figlie Carlotta e Marta), Bartolo Mascarello, Valentini, Marco De Bartoli, Lino Maga, In Der Eben, Frank Cornelissen, Dettori, Radikon, Angelino Maule, Giotto Bini, Elisabetta Foradori, Salvo Foti. Continuo?
Gli errori del mondo artigianale
L'unica nota positiva di Report è la menzione dei naturali, ma non si può dire lo stesso per il metodo che utilizza. E purtroppo fa lo stesso errore di sempre, lo stesso dei protagonisti del mondo artigianale (sì, va bene, lo chiamiamo così), finendo nel semplificare tutto con il romanticismo della vigna con i lombrichi e alzando un Nanga Parbat tra loro e il mondo convenzionale. Noi siamo meglio di voi, e viceversa. Che poi è lo stesso stupido errore che fa il settore tradizionale del vino.
Il mondo dei vini artigianali ha speso un sacco di energie per rivendicare la propria esistenza più che a spiegare come produce le proprie bottiglie. Più a raccontare il vangelo del vino secondo natura, con le vigne che vivono piene di erbe spontanee, le pecore che concimano con i propri bisogni, il mantra salutista. Anche noi giornalisti, a cui il naturale piace parecchio, siamo caduti nell'inganno. Energie che potevano essere risparmiate.
Fratelli coltelli
Se sei l'ultimo arrivato, tocca a te fare un passo verso gli altri. E invece no, è stato per anni tutto un farsi le pulci a vicenda, tra gli stessi produttori artigianali, dibattiti sulle bacheche Facebook su chi è più naturale dell'altro, quello aggiunge troppi solfiti in bottiglia, l'altro li usa in vasca, ho fatto le analisi del vino del vicino e ho scoperto che non è affatto naturale, lui usa corni sotterrati ripieni di letame, è un grande, lei spreme l'uva con i piedi così il vino è più buono. Ho visto vino "naturale" al supermercato (inaccettabile!). Quello dall'altra parte del lago usa troppo verde rame, beh ha avuto un'annata difficile, guarda che di nascoso usa la "kimika"; quell'altra non è uscita dal girone infernale della limpidezza e filtra il vino (eresia!) anche se con pochi micron.
Il mondo naturale è pieno di fazioni. Gli animi delle associazioni che li rappresentano non sono pacifici. Ci sono stati grandi divorzi, come quello che si è consumato tra il 2005 e il 2006 dentro l'associazione Vini Veri (scissione da cui è nata Vinnatur). Più recenti i bisticci e i litigi dentro la Federazione italiana vignaioli indipendenti (Fivi), il più grande contenitore degli artigianali (criticato anche per questo motivo da chi non ne fa parte), e Vignaioli artigianali naturali. Centinaia di fiere diverse, dalle location più blasonate ai centri sociali. Una costellazione straordinaria ma che tradotta in mera strategia diventa fallimentare. Nel 2010 Vinitaly, la Gerusalemme del vino italiano, apre uno spazio per questi vini alternativi. Si dividono di nuovo, convocano fiere parallele. "Io al Vi.Te non ci vado, chi ci va dei naturali sbaglia, quelli non sono naturali". Ecc, ecc. Non sono frasi inventate, le ho sentire in diverse visite in cantina. Non le ho mai capite.
Mentre Davide litiga...
Anziché unirsi, anche sotto la stessa associazione, con tutte le differenze del caso, si sono divisi. Si è perpetuata per anni una contrapposizione sterile con il mondo del vini tradizionali. Davide continuava ad accapigliarsi e a raccontarsi la favola della vigna di fiori e lombrichi, Golia continuava ad essere Golia (anche con le sue mille divisioni interne). Ignorando il primo. Un errore di comunicazione e di strategia enorme che ha contribuito solo ad aumentare le ostilità tra i due mondi (ma poi è sicuro che non facciano parte dello stesso?). A far sì che convenzionale e naturale non insegnassero niente l'uno all'altro. Soprattutto l'altro all'uno.
Benino Report (ma solo nella menzione, per il resto non lo promoviamo), ma il messaggio che rimane è sterile e pieno di contrapposizione che non porta a niente di buono. I primi a dover imparare a comunicare il vino artigianale sono i diretti interessati. Lamentarsi non basta. Le scuole di sommelier continueranno a ignorare che il vino naturale esiste (se non qualche bella eccezione, ricordo le lezioni della professoressa Daniela Scrobogna della Federazione italiana sommelier - Bibenda), i giornali continueranno a considerarli figli di un Dio minore, gli enologi a sbeffeggiarli, le commissioni di degustazioni a giudicarli "rivedibili" o "non conformi" (alcuni, non tutti). E quest'ultimo è un problema enorme che andrebbe risolto.
Servono idee e non lamentele. E le prime spettano a voi che quei vini li producete.