Quando alla quarta portata, il Raviolo di agnello blasfemo (con agnello di transumanza, una sfoglia realizzata con un orange wine prodotto a Castellina in Chianti e mirepoix fermentata) Dario Tornatore porta l’olio extravergine in una boccetta trasparente con le fattezze della madonna di Lourdes (più extravergine di così) mi rendo conto che lo chef è un pazzo o un genio o uno che vuole farsi cacciare dal giro dell’alta cucina in cui è appena rientrato, dopo anni trascorsi «a fare numeri in Bahrein».
Né dentro né fuori
Dario è un napoletano cresciuto a Roma e vive la cucina come una tara di famiglia, una roba di ragù che «pippeano» la domenica mattina, di polpette e di friarielli. Con gli anni ha imparato l’uso di mondo, è diventato più internazionale, ha messo sulla valigia un sacco di adesivi, ma si ostina a dialogare con le sue origini, che tratta con l’ironia che esse si meritano. Anche qui, al ConTanima del Park Hotel Laurin di Bolzano (in cucina prima c'era Matteo Taccini), città che per essere il capoluogo della provincia più stellata d’Italia in rapporto alla popolazione è un po’ a corto di macaron, solo quello di Claudio Melis (In Viaggio) impone la sua cucina mediterranea e perfino un po’ terrona. A trentotto anni, con la sua anima robusta, la sua faccia da pugile gentile, sembra fregarsene di questo refuso territoriale.
La cena si svolge in una sorta di veranda, la Glasshaus che il proprietario dell’hotel Franz Staffler ha ripensato da solo, con l’aiuto di amici artisti e architetti. Vetri, tavoli di legno di quercia, una ventina di coperti che possono moltiplicarsi all’occorrenza grazie ad alcuni meccanismi quasi teatrali, sul pavimento del brecciolino, un luogo che non è dentro e non è fuori, metafora perfetta anche per la cucina di Dario. Che propone solo otto piatti, tra i quali si può scegliere a misura della fame (tre piatti 60 euro, cinque 80, tutto il «cucuzzaro» 120).
Abbiamo fatto all-in, e dopo qualche snack, siamo partiti dal Game, un gioco di selvaggina resa in paté con cui si formano le quattro lettere del nome, con una spugna alle erbe, del topinambur e una nuvola al pino mugo talmente eterea che ne ho viste svolazzare due fino al soffitto. Poi un magnifico romanissimo Carciofo, con maionese al tartufo e nepitella a mimare la mentuccia. Forse il piatto della serata. Anche se lo chef sembra tenere di più alla finta genovese (finta in quanto senza carne) inserita nelle ruvide candele.
Viaggi partenopei
Dopo il raviolo benedetto e blasfemo, ecco un altro viaggio napoletano, la Scarola ’mbuttunata farcita con capperi, olive e pinoli e con colatura di provola affumicata, spessa e mnemonica. Poi facciamo da cavia a un piatto fuori menu, un esperimento, un'anteprima, ispirato al Gyutan, una specialità di Sendai, in Giappone: lingua di manzo tenuta 48 ore nella brina e poi grigliata, servita con rapa nera sottaceto e un francamente buonissimo gyoza realizzato con gli scarti della lingua.
Si torna sul sentiero tracciato con il Cervo marinato con il black lime (idea che Tornatore ha preso dall’esperienza araba) con castagna d’acqua e scorzonera. Piatto di transizione tra salato e dolce, Cacio e pere: cagliata di latte crudo, pere arrostite al josper, crumble di noci con gelato alle noci e cubetti di miele in favo con il suo polline. Infine la Pastiera smontata come il cristo velato della Cappella Sansevero, con l’orzo che sostituisce il grano per omaggiare il genius loci.
Un po' più di territorio
Che dire, alla fine? Considerato che Tornatore ha preso in mano ConTanima da poco più di un mese, che si dice un po’ spaesato (ma a me non è apparso affatto), che il suo meglio qui deve ancora arrivare, mi aspetto che il suo lavoro trovi presto consensi di pubblico e critica. I presupposti ci sono tutti, la proprietà è solida e ci crede parecchio, lui ha molto da dire e forse deve solo prendere dimestichezza con un territorio che ha da offrire ben più di quello che lui infila nelle poche intercapedini della sua napoletanoromanità. Ma io ci credo. Bravo Dario e ben tornato(re).