Cosa ne pensa un giapponese degli All You Can Eat e del sushi che si trova in Italia? Kenta Suzuki è il volto dietro la Guida Kenta, un timone per orientarsi digitalmente nell’offerta di ristoranti simil-giapponesi e ambasciate culinarie del Sol levante. Un influencer da più di trecento mila followers che tra sogni sfumati, problemi di salute e progetti ci racconta del suo lungo percorso per diventare ambasciatore della cultura giapponese in Italia.
Sei in Italia da più di vent’anni. Cosa ti ha spinto a prendere un biglietto e partire?
A 16 anni volevo diventare calciatore, quindi sono partito per inseguire un sogno. L’idea mi venne nel 1994, quando vidi i mondiali e mi innamorai del talento Roberto Baggio. Mi sono svegliato alle 4.30 di mattina prima di andare a scuola per vedere la partita. Ricordo che piansi. Quante lacrime caddero al rigore di Baggio! -ride-Purtroppo mi feci male e, riconoscendo di non essere abbastanza bravo, smisi di giocare e intrapresi un’altra strada. Presi, appunto, una laurea per lavorare come Dietista.
I miei genitori presero bene la partenza. A riguardo ho un aneddoto importante: mio padre è cresciuto in una famiglia di contadini e non ha potuto trovare un lavoro dei suoi sogni e mi disse “Kenta, nei ristoranti giapponesi l’acqua è gratis, ai distributori automatici costa 100 yen, sulla cima monte Fuji costa 500 yen. Non importa se diventi calciatore, ma trova la cima del tuo Monte Fuji in Italia ed esprimi le tue potenzialità”.
Giovanissimo e in un paese lontano. Come sono stati i primi anni?
I primi passi in Italia non sono stati facili. Però ero tranquillo, perché concentrato sulla carriera calcistica. A livello linguistico c’è stata qualche difficoltà, ma sono una persona alla mano e con il dizionario alla mano comunicavo e mi facevo capire. Quando sono arrivato avevo terminato il primo anno di liceo in Giappone e ho proseguito gli studi in Italia. Il primo anno mi hanno bocciato perché non capivo niente a lezione -ride-, ma dal secondo anno avevo più dimestichezza con la lingua ed è andata bene.
Quando hai deciso di puntare tutto sui social?
Dopo la laurea non trovando subito lavoro distribuivo volantini di un negozio di souvenir ai turisti giapponesi. Loro mi guardavano in maniera strana. Perché ogni guida turistica raccontava di ragazzi che vendevano braccialetti, rose, e che senza un “no” deciso avrebbero finito per truffarli. E come forse saprai i giapponesi non sono abituati a dire di no, si trovano in difficoltà. Vedendo me - ride - mi guardavano malissimo: un giapponese che lascia volantini a Piazza di Spagna. Questo per tipo cinque mesi, poi ho fatto da interprete nell'ambito medico, tra turisti e medici italiani.
In seguito, ho lavorato in una produzione pubblicitaria italo-giapponese. Intanto seguivo qualche cliente come dietista. Nel 2019, per “karoshi”, un termine giapponese che significa morte per affaticamento, ho avuto una miocardite e un infarto. Stavo quasi per morire. Lavoravo di giorno e poi di notte con la produzione giapponese per via del fuso orario, dormivo pochissimo. E lì ho capito che dovevo fare qualcosa per me e iniziare a dedicare tempo per me stesso e ho iniziato a lavorare sui social. Ho iniziato a organizzare dei tour in Giappone, anche in quella occasione ho avuto un intoppo: un’ischemia celebrale. Sono guarito e sono partito per il tour.
Qual è il tuo obiettivo nel fare tutti questi video?
Con i social, quello che vorrei raccontare è la cultura giapponese, in maniera profonda. Attraverso anche la mia esperienza e la mia nazionalità, racconto il punto di vista giapponese. Con la guida Kenta mi focalizzo sulla cucina invece. Non faccio tutto da solo: mi avvalgo di esperti per esporre temi specifici. Io sono un tramite, organizzo, promuovo uno sguardo nella cultura giapponese ma insieme ad un esperto di sakè, di tè e così via.
È una cosa che mi piace fare tantissimo: molti di questi esperti, ma anche alcune istituzioni, come l’Istituto di Cultura giapponese non usano social o non sanno comunicare in maniera coinvolgente con il pubblico e mi piace essere un tramite in questo senso.
Parliamo del tuo ultimo progetto: la Guida Kenta.
Volevo valorizzare cucina giapponese, perché molto spesso in Italia si fa confusione tra cucina giapponese e piatti “simili”, spacciati per autentici. Oltre a questo, volevo aiutare ristoratori giapponesi che sono residenti qui e volevo dare credito a chi lavora in questo mondo e ha portato la propria cultura, chiarendo la differenza che c’è tra vera cucina giapponese e non.
Inizialmente era tutto un altro progetto. Insieme alla Food Brand Factory, con cui ho collaborato per la guida, si pensava di fare un delivery giapponese, ma molti ristoratori volevano valorizzare il loro locale più che fornire un servizio di consegna. Il progetto iniziale non era partito benissimo e ho chiesto all’agenzia di cambiare percorso e puntare su una guida per trovare la vera cucina giapponese.
Qualche locale che preferisci più di altri?
Non posso sbilanciarmi. Però ti posso dire che ci sono molti locali che si impegnano e lavorano molto bene. Il livello che trovi è abbastanza alto, ma ovviamente in Giappone è sempre migliore, un po’ come mangiare in un ristorante italiano all’estero e uno qui. Un gap, una differenza la percepisci. Come criterio di selezione ci basiamo sul riconoscimento di Japanese Food Supporter da parte del ministero dell’agricoltura giapponese.
Oppure sulla la presenza di uno chef giapponese, o di altre nazionalità che ha studiato la cucina tradizionale in maniera approfondita. Ho conosciuto tanti chef italiani molto preparati che sono andati in Giappone a lavorare. In ultimo ci sono le mie personali esperienze.
Un’ultima domanda: il tuo punto di vista sugli All You Can Eat.
Premetto che ci vado pure io. È un tipo di servizio culinario che per alcune occasioni è valido, come ad esempio una serata con amici, però, come qualità e autenticità preferisco altri ristoranti. È una cucina diversa, fatta da sushi moderni, che non sono della tradizione giapponese. Come i Dragon o i California Roll ad esempio. Molti giapponesi non li conoscono. Un po’ come dire la pizza con l’ananas negli Stati Uniti.