"Le donne sono più determinate perché fanno più fatica, vero?". Sembra chiedere conferma Marinella Camerani quando esprime un pensiero in cui crede profondamente. Ma dopo che le parli per un po’ capisci che quell’intercalare “vero” in realtà altro non è che un rafforzativo: la risposta è già nella domanda. Ma è soprattutto nella storia di Marinella, vignaiola dell’anno per il Gambero Rosso, che abbiamo deciso di raccontare in un giorno importante, dedicato alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. "In realtà è la seconda volta che ricevo un premio dal Gambero Rosso: nel 2009 (quando la guida era realizzata ancora in collaborazione con Slow Food; ndr) fui Viticoltore dell’anno. Ma credo che allora lo diedero a me perché serviva che andasse ad una donna. Questa volta mi piace immaginare che sia per la mia storia".
Marinella Canerani racconta la sua storia, in vigna e nel mondo
Una storia che è la trama di tante piccole storie e di scelte mai scontate. A partire da quella che 40 anni fa la portò nella sua amata Val di Mezzane dove nacque Corte Sant’Alda, a cui nel tempo si aggiunsero Adalia e Podere Castagnè. Era il 1983 quando lei diventò ufficialmente una vignaiola...
Chi era Marinella Camerani nella sua vita precedente?
“Ero una ragioniera e lavoravo nell’azienda di mio padre: facevamo batterie per le macchine ed io mi occupavo del controllo gestione. La svolta arrivò quando capii che non sarei mai stata a capo dell’azienda che, invece, sarebbe andata a mio fratello, l’unico maschio di famiglia, o a mio cognato”.
Sempre perché le donne non diventano capi azienda… almeno fino a quando non ne creano una loro.
“Esattamente. Oggi nel mondo del vino ci sono molte più donne rispetto al passato, ma sono per lo più ‘mogli o figlie di’, spesso solo con un ruolo di rappresentanza. Io, invece, volevo creare qualcosa. Ed è quello che ho fatto. I miei avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno e decisi di occuparmene”.
Come la presero?
“Pensarono che fossi diventata matta. A dire il vero nessuno mi incoraggiò in questa impresa. Neppure mio marito. Anzi quella fu l’occasione per divorziare. Nella vita bisogna avere il coraggio di cambiare quando è necessario. E anche di ribellarsi se non ci piace quello che ci viene imposto, vero?”
Lei è una donna che si ribella spesso?
“Uno dei primi ricordi è legato a me bambina. Ero in prima elementare e la maestra voleva farmi disegnare l’uva per imparare la lettera U. Io non volevo assolutamente e lei mi mise in punizione, facendomi girare per i corridoi con il foglio bianco attaccato alla schiena. Allora, offesa nell’orgoglio, lo strappai e le urlai contro. Credo che molte delle mie scelte successive abbiano a che fare con quell’episodio: sono state quasi sempre scelte di reazione”.
Alla fine l’ha disegnata l’uva?
“Assolutamente no. Ma decisi di produrla”.
Ma come ha fatto da sola e senza sapere nulla del mestiere?
“Sapevo già di voler fare un prodotto artigianale e che se hai l’uva buona il vino non può che esserlo altrettanto. Iniziai a leggere, studiare, andare per cantine. All’inizio mio padre fu il mio unico cliente. Comprava il mio vino per sé e per regalarlo. Poi a poco a poco arrivarono i primi contatti commerciali”.
Quanto è stato difficile essere una donna in un modo maschile, come quello del vino?
“Difficile è un eufemismo. Se sei una donna, per giunta sola, gli uomini pensano di poterne approfittare, subisci delle avance e non ti senti mai al sicuro. Lo so perché l’ho provato sulla mia pelle e so cosa significa. Per questo è importante parlarne. Sul lavoro, poi, non ti prendono mai sul serio”.
Si riferisce a qualche episodio in particolare?
“Le dico questa. Dovevo comprare un trattore per l’azienda, così andai alla Fiera agricola di Verona insieme al mio nuovo compagno Cesar di origini peruviane. Arrivati lì nessuno ci ‘diede bado’. Figurarsi una donna e uno straniero che volevano comprare un trattore. Finì che con grande umiliazione dovetti chiamare mio padre e tornare al mercato con lui, che di trattori non ne capiva nulla. Ma era un uomo italiano e, quindi, andava bene”.
Cesar da oltre 30 anni è il suo compagno in vigna e nella vita. Dove vi siete conosciuti?
“Al lavoro ovviamente. Tanti anni fa, un mio conoscente mi propose di affidarmi a un gruppo di peruviani per i lavori nel vigneto. Ero perplessa perché non pensavo che i peruviani capissero molto di vino, ma accettai. Cesar era tra questi. Diventammo amici e mi confidò che dei soldi che io corrispondevo al suo capo, ne prendeva solo una parte perché il resto veniva trattenuto. Allora, proposi a lui e agli altri braccianti di restare in cantina da me, pagandoli direttamente io e mettendoli, a poco a poco, in regola”.
Una battaglia al caporalato ante litteram…
“È un tipo di approccio alla vita: fare qualcosa di giusto nel proprio piccolo. Vale per la vigna così come per le persone. A quella battaglia seguì tutta la trafila per ottenere il permesso di soggiorno di Cesar. Ma non ci sposammo (anche se comunque Marinella lo chiama “mio marito”; ndr) perché non volevamo fosse quello il motivo per diventare cittadino italiano: doveva raggiungere l’obiettivo con il suo lavoro. Ci vollero 20 anni. Se sei un calciatore bastano 5 mesi. Ma questa è un’altra storia”.
Non ha mai pensato di fare carriera politica o diventare sindacalista?
“In effetti, per un periodo entrai nel sindacato della Cisl dove mi occupavo della parte agricola. Ma vidi cose che non mi piacevano. Solite storie di soldi e consulenze poche chiare. Così feci denuncia ai probiviri e andai via”.
Lei è anche entrata nella Commissione Vallate del Consorzio Vini Valpolicella, per uscirne dopo poco. In quel caso, cosa è successo?
“Da anni chiedevo – e continuo a farlo – di riconoscere le sottozone della Valpolicella, compresa la nostra Val di Mezzane, come già esiste la Valpantena. È quella la direzione in cui stanno andando tutte le grandi denominazioni, vero? (anche in questo caso la risposta è già dentro alla domanda, ndr) Ma da anni non se ne fa niente, nonostante nel 2016 sia nata la Commissione Vallate del Consorzio. Ad un certo punto io uscii con una pubblicazione (Around Soil) in cui, dopo un lavoro di zonazione spiegavo le caratteristiche dei nostri suoli. A quel punto, mi diedero il contentino e mi chiamarono dentro alla Commissione. Ma presto mi resi conto che l’obiettivo era non fare nulla, se non darsi appuntamento alla prossima riunione. Un po’ come succede nel mondo politico. In fondo i Consorzi sono politica. Così abbandonai la Commissione”.
Ma quindi lei litiga proprio con tutti?
“Ma figurarsi: è che tocco sempre tasti sensibili. D’altronde mica posso chiedere cose che non servono a nulla. Ad ogni modo, sono e resto dentro al Consorzio. Solo vorrei che fosse una casa di vetro, dove la trasparenza fosse la regola e tutti abbiano voce. Poi per carità so che la diplomazia non è il tratto distintivo del mio carattere. Di conseguenza la politica non fa per me”.
A proposito di politica, pensa che sia una svolta avere una Presidente del Consiglio donna?
“Lo sarebbe se Giorgia Meloni facesse scelte a favore delle donne. Ad esempio, io sarei subito intervenuta sulle differenze salariali rispetto agli uomini. Ma se il primo provvedimento che fa è imporre di essere chiamata “il presidente”, invece de “la presidente” allora c’è qualcosa che non va”.
Torniamo alla viticoltura. Negli anni Novanta incontra il padre della biodinamica Nicolas Joly e abbraccia la filosofia biodinamica, anche se non era ancora una moda.
“Credo che tutti dovrebbero provare a cambiare qualcosa. Magari provare a fare biodinamica solo in un piccolo campo, come mi insegnò Nicolas Joly. Fu lui a dirmi di iniziare da dove mi sentivo più sicura, e così feci. Sta di fatto che oggi sono riuscita ad eliminare i prodotti di sintesi in tutta l’azienda. A parte lo zolfo ho sostituito tutti gli altri con i preparati 500 (letame decomposto) e 501 (silice), con la zeolite, con essenze di arancio e così via”.
E funziona? C’è chi dice che in annate terribili come l’ultima, fare biologico o biodinamico sia impossibile…
“Io lo faccio da oltre 20 anni. L’importante è non confondere l’agricoltura con l’agroindustria. Se fai la prima, devi scendere dal trattore e toccare le tue piante una ad una, mettendo in conto di poter avere un calo della produzione ogni anno, non solo in quelli complicati”.
Da qui l’idea della biodinamica rilassata? Può spiegarci di cosa si tratta.
“È una definizione che ho inventato io. Significa non essere integralisti né da una parte né dell’altra. Oggi molti produttori naturali sono incazzati neri con chi fa viticoltura tradizionale e questo non va bene. Allo stesso tempo, i grandi enologi negano l’esistenza del vino naturale: una vera dichiarazione di guerra a chi sta dall’altra parte. E neppure questo va bene. Anzi è proprio dai grandi enologi e produttori che mi aspetto il nuovo rinascimento del vino: provare a cambiare le cose, smettendola di pensare che il proprio prodotto sia migliore di quello degli altri. Tra un vino totalmente industriale e uno che si fa aceto ci sarà una via di mezzo, vero? Ed è da lì che bisogna partire. Mica si può pensare solo a fà i schei".
[Mentre parliamo, Marinella è reclamata al lavoro: da qualche giorno è finita la vendemmia ed è tempo di pensare alla cantina, dove il giovane enologo Leonardo l’aspetta per svinare. Nessuno farebbe nulla senza consultare prima Marinella. Quando torna ci spiega meglio i ruoli aziendali.]
“A parte Cesar, sono attorniata da un team di under 40, tra cui anche mia figlia Federica che è il mio braccio destro e si occupa di tutta la parte commerciale, oltre che di logistica e accoglienza (la figlia più grande, Alda, non lavora in azienda, mentre la più piccola, Bianca, studia Comunicazione e Marketing; ndr). Ogni mattina alle 8 mi trovo in cantina con Leonardo e facciamo il punto della giornata. In vendemmia, invece, sono fissa al tavolo della selezione delle uve che è un posto strategico perché da lì posso controllare tutto e capire la sanità dell’uva. Vedere come arriva l’uva in cantina permette di capire se si è lavorato bene in vigna e cosa si può migliorare l’anno prossimo. Il mio impegno quotidiano è quello di puntualizzare i dettagli”.
E i libri sparsi per la cantina a cosa servono?
“Ah, quelli fanno parte della biblioteca aziendale. Ognuno può proporre un titolo che poi viene comprato e messo a disposizione di tutti. Abbiamo un mese di tempo per leggerlo; a chi lo fa davvero do 20 euro per il gasolio”.
Cioè, li paga per leggere? E lei cosa ha letto di recente?
“Tre Ciotole di Michela Murgia, una scrittrice che credo sia stata una grande perdita per tutte noi: lei andava dritta al punto, magari a volte anche troppo, ma credo che ci sia bisogno di esempi così. E poi sono una grande appassionata di letteratura latino-americana per quel senso di magia che la pervade. Sa che ho frequentato anche la scuola Holden di Torino?”
Il corso di scrittura?
“Esattamente. È stato tre anni fa. Volevo imparare a scrivere da sola i testi delle mie brochure senza affidarmi agli uffici stampa che sono così distanti dal nostro lavoro. Per carità, ad ognuno il suo, ma ho letto certe cose…! Scrivere è un po’ come tessere una trama. E io ne so qualcosa perché tra i miei hobby recenti c’è anche il telaio: sto prendendo lezioni da una vera maestra”.
Mai smettere di imparare. Ma non si ferma proprio mai?
“Le racconto questa cosa. Una delle mie più grandi passioni è la bicicletta. Così, nel 2015, dopo un periodo buio, feci da sola il Cammino di Santiago su ruote: 800 km in 14 giorni. La mia piccola impresa straordinaria. Arrivata a Pamplona, però, mi rubarono la bici. Disperata chiamai Cesar in lacrime e lui mi disse ‘Domattina compra un’altra bici e va’ avanti’. E così feci”.
Ce l’ha ancora qualche sogno nel cassetto?
“Ho tanti sogni ma tutti piccoli, perché mi piace poterli realizzare. Se fai sogni grandi, restano là. Uno di questi è il viaggio della vita in America Latina: dal Perù fino a Ushuaia (la fine del mondo), passando per il lago salato in Bolivia. Mi piacerebbe partire senza biglietto di ritorno. Ma per farlo come va fatto devi essere in buona forma fisica; per questo sono a dieta”.
Sa che non abbiamo ancora parlato del vino che ha ottenuto i Tre Bicchieri: Amarone Val**ane 2016. Ripariamo. Qual è la sua idea di Amarone?
“Un vino artigianale legato al territorio. Il mio non è mai stato full body. Ho sempre prediletto uno stile più asciutto, non troppo dolce e con una buona acidità: quello che esprime la nostra zona”.
Se non fosse nata in Valpolicella, che altro vino le sarebbe piaciuto produrre?
“Senza dubbio il Pinot Nero di Borgogna, la patria dei vigneron, in contrapposizione a Bordeaux dove ci sono i grandi chateaux. Infatti, mi è sempre piaciuto definirmi una vigneron della Valpolicella. Ma forse è proprio per questo motivo che ho ricevuto il premio di vignaiola dell’anno del Gambero Rosso, vero?”