Benessere animale. Un termine che porta con sé diatribe di natura etica che vanno avanti da millenni. Oggi se ne torna a parlare perché l’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (nata con l’intento di creare politiche migliori per tutti), ha compiuto un passo avanti: il concetto di benessere animale rientra nelle linee guida delle multinazionali. Quindi, tutte le grandi aziende degli stati membri dell’OCSE – 38 in tutto, Italia compresa – dovranno (ri)pensare le loro pratiche, concentrandosi sulla salute del bestiame e seguendo determinati standard (non ancora obbligatori…) per poter inserire la dicitura benessere animale etichetta. Una novità che coinvolge anche le aziende fuori dall’OCSE ma che lavorano comunque con paesi che ne fanno parte.
Benessere animale: l’obiettivo della strategia europea Farm to Fork
Ma partiamo dal principio, perché per capirne di più occorre tornare al 2020, e alla strategia agricola Farm to Fork presentata dalla Commissione europea. La carne al fuoco è stata alta fin dall’inizio: i punti salienti del programma riguardavano l’uso di fertilizzanti e l’incremento dell’agricoltura biologica. Lo scopo era quello di ridurre del 50% l’utilizzo di pesticidi chimici e antibiotici per gli allevamenti e l’acquacoltura, diminuire del 20% l’uso di fertilizzanti e incrementare del 25% le superficie coltivate a biologico. Il tutto entro il 2030, con un finanziamento di 20 miliari l’anno tra fondi europei, nazionali e privati. Obiettivi nobili, senza dubbio, ma mentre la teoria è sempre stata ben confezionata, la parte pratica non ha rassicurato poi così tanto le associazioni ambientaliste e animaliste.
Benessere animale e le promesse non mantenute
Con la Farm to Fork, la Commissione europea si è impegnata a rivedere l’intera legislazione sul benessere degli animali. Nel 2021, però, l’associazione Essere Animali ha fatto sentire la sua voce insieme ad altre organizzazioni italiane, chiedendo che il decreto e gli standard per la certificazione fossero rivisti. Al tempo, infatti, non c’era stata chiarezza sulle condizioni di vita degli animali da allevamento, né divieti particolari di pratiche considerate disumane. Era sufficiente – come aveva mostrato già nel 2020 l’inchiesta di Sabrina Giannini in “Indovina chi viene a cena” – aggiungere qualche abbeveratoio in più. Un po’ di acqua fresca et voilà, ecco l’etichetta per fare bella figura. Un problema non solo di trasparenza verso i consumatori ma anche di ottimizzazione delle risorse: la certificazione così rilasciata rischierebbe di dare priorità di accesso ai fondi PAC e PNRR ad allevamenti intensivi anziché ad aziende virtuose che lavorano in maniera etica, proprio quelle che la Commissione europea aveva promesso di sostenere con la Farm-to-Fork.
Gli standard dell’OCSE
Poi qualcosa è cambiato. A inizio 2023 le bozze della normativa si facevano più promettenti, proponendo misure basate sulle raccomandazioni scientifiche fornite dall’EFSA, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (eliminazione graduale delle gabbie, aumento degli spazi a disposizione, divieto dell’abbattimento sistematico dei pulcini maschi, divieto di alcune pratiche di macellazione come i bagni d’acqua e così via). La novità, adesso, è l’inserimento del parametro benessere animale all’interno delle linee guida, che non sono però vincolanti: i Paesi membri dell’OCSE, però, sono tenuti a creare un sistema di reclamo, segnalando le aziende che non rispettano le misure indicate. Non molto, ma un piccolo primo passo. “Se confrontiamo le innovative linee guida dell’OCSE con la triste realtà che miliardi di animali subiscono, la necessità di un’azione immediata diventa fin troppo evidente” ha dichiarato Jeffrey Flocken, presidente di Humane Society International, organizzazione in difesa dei diritti animali. Affinché i nuovi standard abbiano un impatto concreto, però, aziende e governi devono agire per sradicare certe pratiche comuni negli allevamenti intensivi, “questi standard devono servire solo come un grido d’allarme”.