“French rock is like english wine”. Il primo articolo in lingua originale che mi capitò di leggere alcuni anni fa sulla tematica del whisky in Francia iniziava con questa (da noi poco conosciuta) citazione di John Lennon che già conteneva in se un’implicita dichiarazione di guerra. I cugini d’oltralpe infatti hanno sempre avuto la tendenza a voler eccellere in qualsiasi aspetto dell’enogastronomia, e il mondo dei distillati non pare essere un’eccezione. Dai rum agricoli alla vodka, in qualsiasi categoria merceologica spiritosa si cimentino il timbro indelebile del “bien fait” sembra doverli contraddistinguere. E ora, anche se ancora a fari spenti, i francesi paiono intenzionati a impadronirsi di quello che per anni è stato il simbolo in bottiglia degli eterni rivali di Albione, ovvero il whisky. Non si tratta di sporadici tentativi e velleità d’artista, bensì di un giusto mix di serietà, storia agricola e consumi. A oggi non è possibile dire se la Francia seguirà la strada del Giappone e diverrà la prossima grande nazione di whisky (almeno a livello qualitativo), ma gli elementi per pensarlo ci sono tutti e di seguito proveremo a spiegarvene il perché.
Whisky francese: la materia prima e la storia
Per produrre whisky e farlo bene ci sono alcuni passaggi fondamentali, e il primo tra questi è il reperimento della materia prima. La Francia, da sempre paese agricolo, è di fatto il più grande produttore di orzo e di malto in Europa. Ingredienti non casuali, visto l’altissimo numero di birrifici presenti oltralpe, bevanda estremamente diffusa e amata in tutto il nord-ovest dell’esagono (non scordiamoci che giusto oltreconfine si trovano Germania e Belgio). Gli altri due elementi necessari già disponibili sono un know-how reale per quanto riguarda la distillazione, derivante dalla secolare tradizione del cognac, e la gestione dell’invecchiamento, che non comporta problemi essendo il paese il secondo produttore di barrique del mondo, subito dopo gli Stati Uniti. Ma il ragionamento in tal senso va oltre, come ci racconta Daniele Cancellara, barmanager di Rasputin di Firenze, oltre che esperto di whisky “proprio i francesi, così affezionati al concetto di terroir, cercano di riportare il concetto anche nella produzione di whisky, come dimostra il caso di Brenne, che utilizza orzo coltivato nel terreno del cognac, tipicamente gessoso, e invecchiato in botti ex cognac o vergini di limousine francese”.
Il fiorire di distillerie artigianali e i disciplinari
Può sorprendere, ma la Francia conta a oggi più distillerie di whisky dell'Irlanda. Un fiorire di produttori che in pochi anni sono riusciti a creare un vero e proprio movimento interno e a suscitare curiosità nei consumatori, facendo uscire il segmento dalla nicchia e rendendolo interessante, fino a normalizzarlo nel percepito. Pochi anni è vero, ma non pochissimi, se si pensa che questo progetto nasce più o meno trent’anni fa con il primo Single Malt, Armorik (1998) o ancora prima se si conta il primo blended francese (1987).
Parliamo di piccole distillerie, non di grandi produzioni, che storicamente si sono affidate al regolamento europeo che prevede, per l’utilizzo della dizione “Whisky”, un distillato di cereali invecchiato almeno 3 anni in legno. Ma è già sorta una Fédération du Whisky de France che sta lavorando a un disciplinare nazionale, che possa fare riferimento a una filiera sempre più controllata, come ci spiega Claudio Riva, presidente di Whisky Club Italia “Tutto questo è affascinante per l’identità geografica del prodotto, i francesi sanno fare consorzi che funzionano bene. Il primo disciplinare nato è stato quello bretone, seguito da quello alsaziano e parlano di un dettaglio del processo produttivo addirittura più normato dello scotch, conoscenza che si sta provando a passare anche al consumatore. E la cosa sorprendente è che è stato pensato dai produttori stessi in comune accordo, senza nessun intervento governativo”.
Il consumo interno
Se il numero di distillerie vi ha lasciati sconcertati, è perché non siamo arrivati ancora ai numeri di consumo interno. È qui che tutta la progettualità di lungo corso dei francesi trova le proprie radici, e soprattutto le basi per un solido futuro. Come ci racconta ancora Claudio Riva “la Francia è il più grande mercato di consumo. Otto anni fa il consumo mensile di whisky ha superato l’annuale di cognac. Oggi il paese è il più grande mercato d’esportazione, superando gli States. Anche il successo del whisky giapponese in Europa nasce proprio da qui”. Anche i dati di mercato confermano: i consumi sono in continuo aumento, con 193 milioni di litri di whisky bevuti nel Paese dei Lumi, ovvero il 39% del fatturato degli alcolici venduti nei supermercati. Equivale a dire una media 5 litri di whisky (tutti i tipi) all'anno e per famiglia.
Anche sulle modalità di consumo non tutto è come ci si aspetta, come ci racconta Daniele Cancellara: “Il whisky è bevuto moltissimo all’aperitivo, è addirittura il prodotto più richiesto (se separiamo il vino in rosso, bianco e bollicine). Anche in miscelazione trova sempre più riscontro”.
Whisky francese: perché non se ne parla?
Se i numeri sono questi la domanda sorge spontanea: perché allora non si parla di whisky francese in Europa e nel mondo? Ci sono varie spiegazioni, la prima è che come i numeri dimostrano, per ora il grosso della produzione serve a dissetare il mercato interno. La seconda invece riguarda il fatto che i colossi dell’alcool francesi (Pernod Ricard e LVMH in primis) possiedono molte delle grandi distillerie di Scozia, e non hanno particolare interesse a lanciare un nuovo mercato in questo momento. Un terzo elemento è il tempo: i francesi infatti non amano fare le cose a metà, e già oggi stanno distillando più del necessario, creando invecchiamenti sempre più raffinati. Quando il Giappone diventò richiesto dal mercato globale, si verificarono tragiche rotture di stock, e pare che i francesi non vogliano correre il rischio. Ma se tre indizi fanno una prova, gli elementi per cominciare a mettere qualche bottiglia in cantina, paiono esserci tutti.
a cura di Federico Silvio Bellanca