A Roma è il supplì, a Napoli la pizza a portafoglio: ogni angolo d'Italia è caratterizzato da uno o più cibi da strada che, nell’immaginario collettivo, lo rappresentano e contraddistinguono. Ma cosa c'è oltre le “celebrità”? C'è un universo di ricette che meritano ugualmente di essere raccontate (e, va da sé, assaggiate): questa nuova rubrica la dedichiamo proprio agli street food meno conosciuti al di fuori della loro zona d'origine, partendo dalla Sicilia. La Sicilia dell’arancino, dello sfincione, del pane con le panelle. E tanto altro.
La Vigilia a Lentini: il cudduruni
A chi arriva a Lentini, cittadina barocca in provincia di Siracusa, può capitare di scoprire il cudduruni. La radice di questa parola - probabilmente il termine greco kollura, che significa “corona” - è la stessa di molti altri prodotti, spesso diversi tra loro, che è possibile trovare in Sicilia ma anche nelle vicine Calabria e Puglia. Salvatore Giuffrida, segretario della sede Slow Food di Lentini, ci ha rivelato le origini e le tre autentiche varianti di questa focaccia ripiena - altre sette specialità da forno siciliane ve le abbiamo già descritte - una pietanza povera nata dalla necessità di arrangiare un pasto raccogliendo in campagna le erbe selvatiche e utilizzandole per guarnire gli avanzi di pane. “Qui il cudduruni si mangia spesso, ma il momento dell'anno in cui prepararlo diventa quasi 'd'obbligo' è la Vigilia di Natale”, ci spiega, “l'impasto è a base di semola di grano duro, acqua, sale, lievito; per la farcia, invece, le opzioni sono tre: anciti (bietole selvatiche), broccoli neri o cipolla, con pecorino, estratto di pomodori secchi, olio extravergine”. Infine, la pasta viene ripiegata su se stessa e i bordi chiusi con la tipica “pizzicatura” a mo' di cordoncino: una delle tante ipotesi vuole infatti che il nome derivi da “cordone” (sotto la ricetta di Lucinda Nocita, che gestisce uno dei più antichi forni cittadini).
Nel tempo sono state sperimentate altre versioni: c'è chi aggiunge la salsiccia sbriciolata, la mortadella, le olive o le acciughe. Al di fuori dei confini di Lentini, la parola cudduruni può indicare altre ricette. A Melilli, sempre nel siracusano, è ad esempio una base tonda dalla forma a spirale, caratterizzata da una serie di “solchi” concentrici all'interno dei quali viene distribuito il ripieno.
Foto: Antica Friggitoria Stella
Le crispelle catanesi: a Natale salate, per San Giuseppe dolci
Spostandoci a Catania, la Vigilia di Natale ha tra i suoi protagonisti un altro cibo da strada: le crispelle. Appartengono alla tradizione locale da molto tempo, ma non se ne conoscono con esattezza le origini. “Il segreto risiede nella capacità di fare una pastella dalla consistenza al limite del liquido, maneggiarla velocemente in modo da creare delle palline da riempire con ricotta (di pecora) o acciughe, per poi friggerle nello strutto”: ce lo racconta Alessandra dell'Antica Friggitoria Stella (storica insegna gestita da suo figlio Andrea e segnalata dalla nostra guida Street Food 2017). La differenza, quindi, la fa la mano del crispellaio o della crispellaia.
Delle crispelle esiste pure una versione dolce, preparata in occasione della festa di San Giuseppe e su cui sono state raccolte informazioni più precise. Pare infatti che siano state inventate dalle monache benedettine di un monastero catanese nel XVI secolo. Si tratta di bastoncini di riso cotto nel latte e aromatizzato all'arancia, che vengono fritti nell'olio e poi guarniti con miele, zucchero e cannella.
Il grande universo delle rosticcerie catanesi con le bolognesi e le bombe
A livello di street food, Catania è una città che ha davvero molto da offrire. Per rendersene conto, basta andare alla scoperta delle sue rosticcerie. Oltre al noto arancino (nella Sicilia orientale è usato il sostantivo maschile, mentre a Palermo “l’arancina è fimmina” e non ci sono margini di trattativa), le tavole calde cittadine sono costellate di numerosi sfizi che, per i catanesi, rappresentano uno spuntino da concedersi a qualsiasi ora del giorno, spesso come colazione salata.
Tra le ricette meno conosciute oltre i confini regionali ci sono, ad esempio, la bolognese e la bomba. La prima è un rustico dalla forma circolare che si contraddistingue per la combinazione di due impasti: la base è una pizzetta, mentre la parte superiore è un disco di pasta sfoglia. Per quanto riguarda il ripieno, le possibilità sono davvero tante: uovo, prosciutto cotto e formaggio, ad esempio, o formaggio e ragù (dal suo utilizzo deriva forse il nome del prodotto). La bomba, invece, è una gustosa preparazione realizzata con pasta di pizza, una sorta di pallotta che solitamente racchiude un cuore di prosciutto cotto e formaggio a pasta filata, servita fritta o dopo la cottura al forno.
Foto: Pasticceria Savia
E ancora cartocciate, cipolline, siciliane e sfoglie
Altrettanto frequenti sono la cartocciata e la cipollina. La prima è una mezzaluna cotta al forno: l’impasto è morbido e lievitato con un retrogusto leggermente dolce, la farcia classica è con prosciutto cotto, pomodoro e mozzarella (o altri latticini), a cui c’è chi aggiunge le olive nere, ma ormai le alternative sono svariate. A partire da quella creata nella celebre pasticceria Savia (presente nella nostra guida Pasticceri&Pasticcerie 2018), con melanzane fritte, salsa di pomodoro, prosciutto cotto e formaggio. Le cipolline sono invece dei fagottini di pasta sfoglia, che devono il loro nome a uno degli ingredienti che custodiscono: la cipolla appunto, che generalmente viene prima stufata, a cui si aggiungono mozzarella (o simili) e prosciutto cotto. Dopo averli ben distribuiti sulla base di sfoglia, quest’ultima va chiusa a fazzoletto portando i 4 angoli al centro.
Poi ci sono le siciliane, che all’aspetto ricordano i calzoni; sono fritte nell’olio e caratterizzate dalla farcia con tuma e acciughe. Ormai sono diverse le insegne in cui è possibile trovarle, in città e non solo, ma in realtà furono inventate in un bar-pasticceria di Zafferana Etnea: Donna Peppina, aperto nel 1924 da Giuseppa Finocchiaro. Infine, le sfoglie (dette pure paté): a base di pasta sfoglia, ce ne sono tre tipi. Quelle rettangolari di solito sono farcite con cotto e formaggio, quelle a mezzaluna con spinaci e formaggio, le tonde (meno diffuse) con il ragù impiegato pure per gli arancini.
Catania e la carne (di cavallo): arrusti e mancia
Non finisce qui. Perché la descrizione del cibo da strada catanese non può essere esaustiva se non si parla di arrusti e mancia, una tradizione che ha il suo cuore pulsante in via Plebiscito. Quest’ultima, infatti, pullula di trattorie che servono a getto continuo carne cotta alla brace. Ci sono salsicce, costate di maiale, le tipiche cipollate (create arrotolando la pancetta attorno a un cipollotto) e le stigghiole palermitane, ma soprattutto c’è la carne di cavallo. Proposta a fettine o come polpetta, la si mangia da sola o all’interno di un panino, arricchendola con il salamarigghiu (il salmoriglio), un intingolo preparato unendo olio, aceto, sale e origano.
Foto: Angela Cucinotta
Messina e il suo pitone (o pidone?)
A Messina, invece, non si può non assaggiare il pitone (in dialetto pituni). Se la diatriba linguistica tra l’arancina e l’arancino ha avuto una risonanza nazionale al punto che è intervenuta l’Accademia della Crusca, ce n’è - su scala più ridotta - certamente un’altra. Quella tra “pitone” e “pidone” (piduni è la formula dialettale). Definire con certezza quale delle due espressioni sia più corretta è difficile, dato che non conosciamo esattamente l’origine della parola: c’è chi la collega a Pitone, il drago-serpente della mitologia greca che, prima di Apollo, custodiva l’oracolo di Delfi; c’è chi, invece, afferma che derivi da “piede”, ritenendo che il suo primo significato fosse quello di “calza di lana” o “soletta”. In ogni caso, si tratta di un rustico simile a un calzone. Il suo tratto distintivo sono le materie prime con cui viene farcito, le stesse che compongono il topping della focaccia messinese: scarola, pomodori, acciughe e tuma (ma si utilizzano ormai vari formaggi a pasta filata). La ricetta tradizionale prevede che il prodotto sia fritto nell’olio, ma è altrettanto comune trovarlo cotto al forno. Nelle rosticcerie cittadine sono con il tempo nate numerose varianti che si differenziano per il ripieno: rimane nel solco della tradizione quello alla Norma con salsa di pomodoro, melanzane fritte e ricotta infornata.
Foto: cosedafareinsicilia.it
L’anima di Palermo è nel “manciari di strada”
Palermo è stata spesso considerata una delle capitali internazionali dello street food. Qui il manciari di strada è una vera istituzione, dallo sfincione al pani ca’ meusa (il panino con la milza). Anche se per farne un compendio del tutto esauriente servirebbero frotte di pagine, ecco alcune delle preparazioni in cui ci si imbatte tra i vicoli e i mercati della città.
Partiamo dalla frittola (frittula in dialetto), che si ottiene dagli scarti di macellazione del vitello. Questi vengono fritti, lasciati poi a riposare in acqua fredda e infine bolliti. Una volta pronti, il frittularu li trasferisce nel panaru (un cesto di vimini) e li tiene rigorosamente coperti per mantenerne la temperatura. La frittola viene servita insaporita con sale, pepe e limone, direttamente su un foglio di carta oleata o in un panino.
Il quarumaru, la stigghiola e le raschiature
Il quarumaru è un’altra figura iconica: è colui che vende la quarume (in italiano caldume: pietanza calda), ossia un brodo realizzato con le interiora del vitello, che dopo essere state accuratamente lavate si fanno bollire con vari ortaggi come cipolla, sedano, carota e pomodoro. La parola quarume deriva da quarara, la tipica pentola usata per la cottura. Un tempo, nelle botteghe che la vendevano era indicata con la scritta “Brodo e pietanza”, sintesi perfetta di un piatto che riscalda ed è nutriente. Ancora oggi, molto spesso il quarumaru è colui che vende pure il mussu e carcagnolo (letteralmente, il muso e il calcagno), che altrimenti si possono acquistare nelle macellerie: sono pezzi di carne e cartilagine ottenuti da queste due parti del vitello. Dopo la bollitura, i palermitani li mangiano semplicemente a “stricasale” (conditi con olio, sale e succo di limone) oppure in insalata, accompagnandoli di solito con cipolla, sedano, carote, olive, olio, sale, pepe, limone e aceto. Nell’insalata, spesso, si trova anche ilmasciddaru, ossia la mascella.
A completare il quadro “carnivoro” dello street food palermitano è la stigghiola, quella che i cittadini riconoscono dal fumo provocato dallo stigghiularu. Si tratta infatti di budella (generalmente di agnello, ma ci sono pure di vitello) cotte sulla brace dopo esser state arrotolate attorno a un cipollotto oppure infilzate in uno spiedino a mo’ di serpentina. Una volta pronte, si tagliano a pezzetti e si insaporiscono con sale e succo di limone.
Al saggio motto del “non si butta via niente” si ispirano infine le raschiature (in dialetto rascature), nate dall’abitudine delle friggitorie di riciclare gli avanzi degli impasti preparati per panelle e crocchette di patate (le crocchè), raschiandoli dalle teglie per poi mescolarli: ogni volta, dunque, il risultato e la consistenza cambiano, ma comunque la raschiatura è una sorta di polpetta dalla forma allungata che viene nuovamente fritta.
Foto: La Vecchia Salumeria
L’arte siciliana di “cunzare” il pane
L’ultima tappa di questo viaggio la dedichiamo al pane cunzato (o pani cunzatu), che non significa altro che “pane condito”. Diffuso (in più versioni) in tutta l’isola, dal trapanese alle isole Eolie, ecco un altro esempio di street food che trae origine dalla necessità di mettere qualcosa in tavola con poche risorse economiche: la soluzione era preparare il pane nel forno di casa e guarnirlo come si poteva. Tra i condimenti tipici c’è quello con acciughe sottolio, pomodori, primosale siciliano, origano e olio extravergine. I segreti per prepararlo ce li racconta Antonio La Vecchia de La Vecchia Salumeria a Marsala (locale a conduzione familiare da 5 generazioni, presente nella guida Street Food 2017): “il pane deve essere tiepido, non va aggiunto il sale perché è sufficiente la sapidità delle acciughe, che si possono sostituire con le sarde, ed è fondamentale non dimenticare le foglie di basilico che danno freschezza”.
La ricetta del cudduruni con i broccoli neri
Ingredienti per 450 g di impasto
200 g di semola di grano duro
200 ml di acqua
4 g di sale
10 g di lievito di birra
Per la farcia
150 g di pecorino fresco
300 g di broccoli neri
Estratto di pomodoro secco q. b.
Sale q.b.
Olio q.b.
Unire semola, acqua, sale e lievito. Lavorare l’impasto fino a renderlo elastico, coprirlo e lasciarlo lievitare fino al raddoppiamento del volume. Ricavare un disco: distribuire l’estratto di pomodoro su metà della base, al di sopra il pecorino (volendo pepato) tagliato a fette sottili e infine i broccoli (che vanno prima tagliati a pezzetti e leggermente sbollentati con sale e olio extravergine). Chiudere il disco a mezzaluna, pizzicando i bordi a mo’ di cordoncino. Ungere con dell’olio la parte superiore della focaccia e praticare dei fori con i rebbi della forchetta. Cuocere in forno a 180/200° per 40 minuti circa.
a cura di Agnese Fioretti