Città e provincia
E il primo, quello che dalla provincia porta nei grandi centri, trova in Vittorio Fusari (Dispensa Pani e vini; Pont de Ferr a Milano),Giancarlo Perbellini (Casa Perbellini a Verona), Alessandro Pipero (Pipero al Rex, Roma), tre esempi paradigmatici di come questi percorsi di avvicinamento-allontanamento dalla città portino con sé anche la necessità di riallineare stili e proposte all'ambiente circostante. La provincia, che pure in Italia ha tenuto a battesimo alcune tra le più belle esperienze dell'alta ristorazione, continua a mantenere con questa rapporti conflittuali: da una parte una comunità talvolta diffidente a varcare la soglia dei locali gourmet e la distanza che esclude quasi completamente la clientela di passaggio, dall'altra la convenienza di costi fissi più bassi e una concorrenza meno feroce che permette sviluppi graduali. Senza contare la possibilità di stabilire rapporti diretti con realtà di riferimento e tessere una rete di fornitori che, a diverso livello, sostengono un progetto comune, saltando filtri e passaggi che fanno perdere verità e condivisione. Non ultimo la possibilità di un ambiente a misura d'uomo, in cui si sviluppano dinamiche protettive.
D'altro canto la piazza cittadina è, sì, affollata di potenziali clienti, capace di accogliere il nuovo e dare stimoli - “la città ti obbliga a giocare veloce” dice Fusari - ma subisce gli umori delle mode che rendono difficile, talvolta, intuire i percorsi di sviluppo di un'attività commerciale. Rendendone imprevedibile la crescita. Non solo: la comparsa sul mercato di gruppi ristorativi o società che investono nel food ne cambiano il profilo, storicamente ad appannaggio di chef patron e ristoratori a capo di piccole imprese familiari. Nascono attività più strutturate, che assorbono con disinvoltura anche costi maggiori di affitti o licenze. E mettono in campo nuove dinamiche. E questo avviene nelle grandi città prima che in provincia.
L'identità e la forza del gruppo
Entrare in un locale con una sua precisa identità, come nel caso di Fusari al Pont de Ferr, non è semplice. Gli ci è voluto del tempo per definire un nuovo profilo, non più Pont con l'importante eredità di Perdomo, non solo Fusari, così come l'abbiamo conosciuto da Dispensa Pani e vini ad Adro. Ma qualcosa di nuovo. In più è arrivato in una cucina praticamente deserta: “ho impiegato quasi un anno a individuare il mio sous” e oltre 6 mesi per introdurre, nella carta del Pont, i suoi piatti.
Ben diverso il caso di Giancarlo Perbellini che ha, da due anni, fatto il grande salto da provincia a città con Casa Perbellini, locale che unisce l'alta cucina dalla storia pluriventennale divenuta famosa a Isola Rizza a un ambiente confortevole, informale, da "casa", che ha conquistato Verona, "con formule diversificate, che più si adattano ai ritmi cittadini". Con un gruppo imprenditoriale che conta insegne anche fuori Italia, per Perbellini l'ultima apertura in ordine temporale è quella del Dopolavoro al JW Marriott di Venezia, in cui ha messo insieme una brigata già rodata. Avendo lavorato assieme tutto il resto è stato velocissimo, riconoscimenti inclusi. “La provincia ti forgia” dice “ti fa sudare di più, devi tirare fuori tutto quello che hai dentro”. E farlo insieme a un gruppo affiatato è un vantaggio inestimabile. La squadra è anche la carta vincente di Pipero che ha saputo riunire un piccolo gruppo che si era conosciuto alla corte di Antonello Colonna a Labico. Arricchito da nuove figure individuate dal suo fiuto da talent scout. Capire le persone, conoscerle ben oltre i confini lavorativi, permette di pescare dal gruppo le più adatte per le proprie esigenze. Non è un caso che lui, carismatico maestro nell'arte dell'accoglienza, lo sia anche nel comprendere e stimolare la sua squadra. In città come in provincia: “la provincia va bene per la gavetta e per la pensione”.
L'etica della cucina tra design e spirito sportivo
Come in una casa, e forse di più. Con questa idea Davide Oldani ha creato il nuovo D'O: un luogo dove tessere relazioni più intime tra quel che c'è dentro quelle mura e quel che avviene fuori. In questa traiettoria si crea una triangolazione che mette in relazione cucina, design, etica. A partire da un'idea di ospitalità a tutto tondo che l'ha portato ristrutturare non solo il suo locale (trovando l'ispirazione nella sua vecchia casa milanese) ma anche la piazzetta in cui è inserito. Con un approccio che allarga il proprio interesse al bene comune e a un'ospitalità a tutto tondo, che non si ferma sulla soglia. In questa esperienza rientra la cura per il design, studiato in prima persona insieme a Maurizio Riva per assicurare il massimo del comfort: le sedie un pochino più alte del normale permettono una postura più dritta “e, conseguentemente, una migliore digestione” spiega, e aggiunge “l'accoglienza si vede anche in questo”.
È l'evoluzione della cucina Pop, “che dopo l'esperienza di Expo che urlava al mondo Nutrire il Pianeta, Energia per la vita” elabora l'idea nata 13 anni fa spingendo verso la maggiore fruibilità possibile (fatta salva una lista di attesa lunga un anno). Ora Pop è l'identità stessa della creatura Oldani, ben oltre i prezzi popolari: è il principio che racchiude etica, rispetto, condivisione, creatività. Concetti semplici suggeriti nei menu che rubano i titoli delle famose Lezioni americane di Italo Calvino per distillare in modo immediato la sua proposta gastronomica e la sua filosofia.
Su questo concentra la sua attenzione, pur preso dalle imminenti aperture di Manila e Singapore: sull'idea etica del lavoro, sullo spirito sportivo come direttiva di vita, sull'impegno e la correttezza. Che traduce ai futuri cuochi con il richiamo a regole, rigore, fatica, sacrificio (“attenzione che dopo la scuola non è per niente facile”), capacità di seguire un obiettivo e vincere le proprie battaglie. Ma sempre con spirito sportivo: serve rispetto per l'altro, serve fare squadra: “nella mia cucina vige la regola del terzo tempo. Ci può essere una giusta competizione, ma occorre stringersi la mano a inizio e fine giornata”. Oldani, calciatore mancato, forte di una stretta collaborazione con il Coni, coniuga nel suo ristorante l'etica del lavoro e dello sport.
Evoluzione della tradizione
“Il concetto del chilometro zero è superato, non conta più sapere la provenienza territoriale ma è fondamentale conoscere chi produce le materie che andrai a usare”. Spiazza, ma forse neanche troppo, l'esordio di Giorgione (Alla Via di Mezzo in Umbria), che continua: “Nella proposta del menu non dovete prendere in giro i clienti”. Anche se a volte si rischia di deluderne le aspettative. È dello stesso parere Michele Valotti (Trattoria La Madia): “I clienti sono abituati alla standardizzazione, sono assuefatti a un prodotto fatto in un certo modo, e con un sapore che è sempre quello. Nonostante ciò, il ruolo dell'oste è proporre sempre qualcosa di diverso, perché la vita è questo: tutto dipende dal territorio o dall'annata. Se noi osti dovessimo fare tradizione senza tener conto dei prodotti, entreremmo nel campo del folclore”. Un esempio concreto è lo spiedo bresciano, piatto tipico fatto con gli uccellini. “Dal 2014 non possiamo né cacciare né importarli. Quindi abbiamo iniziato a proporre una sardina essiccata, presidio Slow Food del lago di Iseo, cotta ad alta temperatura con il burro, che grazie a questa cottura acquisisce note amare riconducibili a quelle degli uccelli da cacciagione. Così abbiamo salvato un piatto, simile al gusto, senza dover utilizzare prodotti provenienti dalla Cina”. Dunque una forma di evoluzione della tradizione, partendo sempre dal territorio. “Perché un piatto non si giudica solo dalla bontà, ma anche dalla storia che racconta, perché a volte il palato non può individuare tutte le informazioni necessarie per giudicare una pietanza (per esempio non può dirci se le uova sono di galline allevate a terra o meno)”.
La responsabilità sociale della trattoria
L'oste di oggi ha una responsabilità sociale maggiore rispetto a ieri, dato che le persone hanno forse meno consapevolezza. E questa responsabilità si traduce anche in termini economici, quando l'oste sostiene piccoli produttori. Come succede quotidianamente ai sei presenti. Un esempio tra tutti è quello di Giovanni Milana (Sora Maria e Arcangelo) che da un post su Facebook sui fagioli a Suricchio, ha generato un passaparola mediatico e suscitato la curiosità di molti (un nome a caso: Gabriele Bonci) sul loro produttore. “Perché il nostro secondo lavoro è quello dei ricercatori. Con i miei collaboratori, nel giorno di chiusura, andiamo a scoprire piccoli agricoltori, allevatori o affinatori. Ed ecco perché nella ricetta tradizionale dei cannelloni (uno dei loro cavalli di battaglia), tramandata da mia nonna, oggi utilizziamo il pomodoro San Marzano o il migliore fior di latte di Morolo”.
Sul tema “ricerca” concordano tutti, anche Andrea Gherra (Consorzio) che da otto anni conduce un lavoro di ricerca virtuoso e in continua evoluzione. Meglio se del territorio, aggiunge Maurizio Rossi (Osteria della Villetta): “perché l'importante è essere legati al territorio, e non solo attraverso il cibo: la trattoria deve tornare a essere un punto di aggregazione di un quartiere”. Dove, tra l'altro, aggiunge Gennaro d'Ignazio (Vecchia Marina) il passa parola è il miglior biglietto da visita che ci sia. In poche parole cosa dev'essere una trattoria? Luogo di aggregazione, di crescita, di condivisione, cultura, divertimento, stimoli. E cosa non deve essere? Rispondiamo con le parole di Giorgione: “Non è vero che la trattoria debba essere sempre economica e soprattutto non deve mai essere cialtrona”.
La lezione della pasticceria
La grande performance di Iginio Massari (pasticceria Veneto a Brescia) si muove tra dati tecnici, indicazioni sulla struttura e l'architettura dei sapori, professioni di fede, moniti e un excursus storico del proprio lavoro che è una sintesi di conoscenza e, insieme, un'incredibile narrazione emotiva, ideologica, tecnica sul ruolo della pasticceria. Dalle dimensioni ideali per un dolce a strati (3,8 cm, al massimo 4) al valore di acidità del limone e della maracuja (rispettivamente tra 3 e 3,2 e 2.8; rispetto al 1,5 dei succhi gastrici) ai diversi tipi di croccantezza che servono per costruire un'esperienza non solo di gusto (inteso in senso stretto: con la lezione dei 5 fondamentali, umami incluso) e di sapore, ma anche di percezione tattile, funzionalità della masticazione.
L'obiettivo? Un dolce buono, bello e replicabile. Caratteristiche essenziali per vivere la pasticceria come momento estatico e articolato che rapisce testa, sensi, cuore. In questo un ruolo non trascurabile hanno le geometrie nel piatto, le forme e il loro significato silente. Ma anche la simbologia sottesa (basti pensare alle torte nuziali).
Si inserisce in questo discorso complesso il monito ad avere sempre obiettivi positivi, tensioni mai soddisfatte per migliorare e migliorarsi nella comprensione di un ruolo che, ben lontano dall'essere quello di un artista che anela al divino, è quello di un artigiano che lavora per l'uomo. “Solo uno ha creato”, dice. Dobbiamo cercare l'incanto del palato, anche attraverso la tradizione che non si rispetta nel tramandarla senza riflettere. Ma sottolinea come l'Italia, nonostante i suoi primati storici, navighi ancora in una situazione antiquata di poca professionalità: cosa ci si può aspettare da un paese che si scandalizza per il costo di un dolce senza neanche capire di cosa si parla? E cosa se sono i clienti a spiegare come fare un dolce invece di delegarne lo sviluppo al professionista? “Come se uno andasse dal dottore chiedendogli di essere operato”.
Gourmet 2016 | Torino | Lingotto Fiere, padiglioni 2 e 3 | dal 13 al 15 novembre | www.gourmetforum.it/
a cura di Antonella De Santis e Annalisa Zordan