Fairway invoca il Chapter 11. La parabola del market gourmet di New York che non regge più la concorrenza

5 Mag 2016, 13:00 | a cura di

Capitolo 11, negli Stati Uniti, significa una cosa sola: l'estremo tentativo di salvarsi dal fallimento, in regime di amministrazione controllata. E ora tocca alla celebre catena nata negli anni Cinquanta appellarsi al tribunale. Cosa è successo? 


Da precursore alla bancarotta

Esiste dagli anni Trenta, ma l'insegna che l'ha resa celebre in tutta New York risale al 1954, quando Fairway si riposizionò sul mercato della grande distribuzione con il nome che oggi tutti i newyorkesi conoscono. All'estero, invece, la fama della catena di supermercati che attualmente conta 15 filiali tra la Grande Mela, il New Jersey e il Connecticut, è legata principalmente alla sua specializzazione in prodotti gourmet e specialità regionali, che contribuiscono a tenere alto il prestigio di una realtà che si professa “like no other market” persino nel marchio registrato. Una scelta che fino a oggi sembrava aver premiato il brand, capace di ritagliarsi la propria nicchia nell'ipercompetitivo mercato dell'area metropolitana di New York (pensate alla presenza di Whole Foods, Eataly, Westside Market e via andando) con una formula onnicomprensiva: qui si trovano sia prodotti normali, da gdo, sia chicche da gastronomia. Tutto in un unico contenitore.

Ma anche dall'altra parte dell'Atlantico non è sempre tutto oro quel che luccica, e da diversi anni la società soffre la diversificazione del settore alimentare e una concorrenza sempre più spietata, tanto da aver accumulato debiti per 279 milioni di dollari. È questa la cifra da capogiro resa nota solo qualche giorno fa nell'ambito di una richiesta di amministrazione controllata che, di fatto, esplicita la bancarotta della società – la bancarotta - e l'estremo tentativo di ridurre il debito affidandosi allo strumento del Chapter 11 (capitolo della legge fallimentare statunitense che prevede la ristrutturazione a seguito di un grave dissesto finanziario), prima di arrendersi al Chapter 7, fallimento con liquidazione di sorta. La documentazione per avviare la procedura che tutti sperano possa risollevare le sorti dell'azienda e farla progredire anche da un punto di vista tecnologico è stata già presentata al tribunale di New York dal consulente per la ristrutturazione Dennis Stogsdill e prevede l'emissione di titoli a debito.

Il presente di Fairway. Ancora like no other market?

Tutta colpa della crescente consapevolezza del consumatore, sostiene qualcuno, che ha determinato il moltiplicarsi in città di servizi a domicilio per la consegna di prodotti enogastronomici di qualità porta a porta. E quindi l'affollarsi di nuovi concorrenti non convenzionali (grocery e-commerce compreso) più difficili da contenere rispetto ai “nemici” di sempre, come Whole Foods e Trader Joe's. E pensare che proprio Fairway, in tempi non sospetti, era stato precursore in materia: negli anni Trenta tutto cominciò dalla vendita di ortaggi e frutta fresca a Broadway e Manhattan (sulla 74esima), poi il nome arrivato negli anni Cinquanta (con il flagship store nell'Upper West Side) e, già all'inizio degli anni Settanta la decisione di dotarsi di un settore interamente dedicato a prodotti gourmet oltre al consueto assortimento da supermercato. Ora la speranza dei vertici dell'azienda è che il ricorso al Chapter 11 possa rapidamente risolversi con l'entrata di capitali utili per rilanciare il marchio. Ma tra i clienti affezionati al brand serpeggia anche qualche insoddisfazione di troppo per un livello qualitativo affatto omogeneo - ai punti vendita storici si riconosce ancora una certa autorità in materia, grande assortimento di formaggi, carne e pesce sempre freschi, prodotti ricercati, non altrettanto si dice delle filiali ultime nate – per i prezzi troppo elevati, per un servizio al cliente meno efficiente e premuroso che in passato. Tutte considerazioni che, forse, dovrebbero far riflettere i piani alti. Perché Fairway possa continuare a fregiarsi della propria (presunta?) unicità, like no other market.  

 

a cura di Livia Montagnoli

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