“Assaggiare non è una cosa semplice, è un panorama ricco di mille sfaccettature diverse.” Queste le parole di chi sull’assaggio ci ha costruito una passione prima ancora di un lavoro: Luigi Cremona che, durante una lezione al Master in comunicazione e giornalismo enogastronomico alla Città del gusto di Roma, ha ripercorso le tappe della sua carriera.
Ingegnere e gastronomo, come lui stesso si definisce, con la passione smisurata per i viaggi che gli ha permesso di conoscere il mondo intero, oltre che le cucine che lo rappresentano. Negli anni ’80 nasce la vocazione per la critica gastronomica, quando scrive le prime schede per l’Espresso in un panorama, quello dei ristoranti italiani dell’epoca, completamente diverso dallo scenario attuale: “Quando iniziai a scrivere recensioni, i ristoranti da guida erano pochissimi e concentrati esclusivamente al nord; da Napoli fino in Sicilia non c’era nulla. I cuochi erano spesso analfabeti e le cucine sporche e trasandate, sembrava il Medioevo insomma. Oggi la cucina è bella, grande, spesso a vista; il cuoco è nella maggior parte dei casi il proprietario, di una cultura infinita. Basta guardare Bottura o Niko Romito, due tra gli chef più importanti al mondo che io ho scoperto per primo.”
Ma se nell’immaginario collettivo il critico gastronomico è uno dei mestieri più invidiati e ricercati, nella pratica diventarlo è decisamente più complicato: “C’è una separazione netta tra chi assaggia vino e chi deve giudicare una cucina. È possibile diventare esperti di vino teoricamente stando seduti comodi sulla propria poltrona degustando qualche migliaio di bottiglie. Oggi purtroppo siamo tutti esperti di ristoranti quando in realtà non lo è nessuno. Forse ce ne saranno dieci in tutto. Essere un vero esperto di cibo costa decine di migliaia di euro; puoi reputarti tale solo dopo essere stato in mille, duemila ristoranti diversi, di più cucine, di più parti del mondo”.
E Luigi Cremona ne ha provati davvero un bel po’ di cucine e ristoranti dove, oltre alle più svariate tipologie di insetti, che per di più sembrano essere anche gustosi e nutrienti, non manca all’appello neanche la carne di armadillo. Curiosità e intraprendenza sono la base per chi voglia fare del cibo uno stile di vita, anche se la tendenza a rimanere chiusi all’interno dei confini nazionali “perché diciamocelo in Italia si vive bene” – afferma Cremona – è ancora troppo presente nella mentalità italiana: “l’Italia è carente di persone che comunicano in ottica globale. Basta con gli chef, ne siamo pieni, adesso servono manager della ristorazione perché sì, esiste l’Italia all’estero, ma è una realtà fasulla gestita da cinesi e giapponesi”.
Ciò che manca quindi è un po’ quello spirito di imprenditorialità che invece primeggia in altri paesi come l’America o l’Inghilterra: “l’Italiano giovane fa fatica a rischiare e a pensare in grande. Il sogno del ristoratore italiano è quello di gestire un ristorante con quattro tavoli facendo il fenomeno in cucina! Così sono buoni tutti! Il sogno di un ristoratore americano invece è di guadagnare milioni di euro con trecento coperti e una cucina perfetta, perché alla fine i numeri contano. Sempre!”
Da dove partire? Un biglietto di andata (e ritorno, perché comunque “in Italia bisogna tornarci per riportare e condividere il proprio bagaglio di esperienze” – dice Cremona -) per la Korea del nord perché “se si vogliono avere delle opportunità tocca puntare su dove ancora c’è poca concorrenza”.
a cura di Irene De Rossi
allieva del Master in Comunicazione e Giornalismo Enogastronomico del Gambero Rosso